top of page

Suoni di un mondo perduto: la musica di Arvo Pärt


Viviamo in un mondo dominato dalla musica. Essa è un elemento talmente presente nelle nostre vite che ormai non ci facciamo più caso. Per strada, al ristorante, al centro commerciale, nelle pubblicità, in rete e così via, ormai sono sempre di meno i posti dove si possa trovare un puro e semplice silenzio. Nemmeno è necessario andare a teatro o a un concerto per sentire musica, e nemmeno è necessario comprare un disco: ora tutto può essere scaricabile e ascoltato in cuffiette. Tutto ciò è unito al ritmo frenetico della vita contemporanea, con la sua fretta, la sua noncuranza, la sua superficialità, il suo stress. Le cuffie sono il simbolo dell’isolamento a cui si è ridotto l’uomo, sempre meno incline al dialogo e alla socialità e sempre più chiuso in se stesso, come una monade. La musica, da evento sociale in cui più persone si riuniscono in un posto fisico per ascoltare musica dal vivo, con suoni “reali” suonati da musicisti in carne ed ossa, sta diventando prodotto digitale da fruire e consumare da soli, nel chiuso delle proprie cuffie. Ci si emoziona sempre di meno assieme, si condivide sempre di meno; ed è ironico che questa tendenza si manifesti proprio nell’epoca in cui siamo abituati a “condividere” valanghe di link – anche musicali – sui social network. Sorgono dunque spontanee delle domande: quanto di ciò che ci giunge alle orecchie è considerabile vera musica? Quanto di ciò che ascoltiamo possiamo ritenere arte? Siamo sicuri che ciò che ci viene propinato come musica talvolta non sia in realtà più affine al rumore, ad uno snervante ed estenuante continuo sottofondo? Se tutto è musica, allora cosa è musica? Se ovunque possiamo sentirla, allora non si perde forse l’unicità dell’instante in cui la ascoltiamo? Da notare la differenza fra il verbo “sentire” e il verbo “ascoltare”: l’ascoltare presuppone un atteggiamento attivo e attento nei confronti di ciò che arriva alle orecchie, presuppone una modalità d’essere, di porsi, cosa che viene sempre più abbandonata a favore di un ascolto frettoloso, passivo e disattento.

È a tutto questo che si oppone la musica dell’artista di cui vorrei parlare: Arvo Pärt, compositore estone nato a Paide nel 1935. Ormai anziano, nella sua maturità artistica ha creato composizioni che, quasi fuori dal tempo e noncuranti del rumore da cui siamo circondati, recuperassero il silenzio e l’attesa, senza i quali non può esserci musica. Formatosi nell’alveo della musica seriale e atonale, compose utilizzando la tecnica dodecafonica assieme a quella del collage come molti compositori suoi contemporanei, per molti anni, fino a quando non giunse ad una crisi. Nel 1968 smise di comporre, e si mantenne in un silenzio di meditazione, riflessione e studio per otto lunghissimi anni. Durante questo periodo comprese che l’atonalità conduceva a un vicolo cieco e che andava ricercato un linguaggio che comunicasse in maniera più autentica, che potesse di nuovo esprimere in modo diretto e trasparente, che potesse essere “arte” nel senso più profondo e spirituale del termine, che recuperasse qualcosa dell’antica bellezza della musica andata perduta col tempo, bellezza che le avanguardie avevano spazzato via: la musica contemporanea richiedeva di essere interessante, provocatoria, rivoluzionaria, concettuale, ma essere “bella” non era una delle sue prerogative assolute. Dunque Pärt si immerse nello studio della musica antica, a partire dal barocco e procedendo a ritroso fino al canto gregoriano, concentrandosi in particolare su quest’ultimo e sulla musica medievale, dall’Ars Antiqua ai Fiamminghi, passando per la scuola di Notre-Dame. Riempì interi quaderni di esercizi ed esperimenti e arrivò a decodificare il suo stile personale ispirato alla musica antica con cui nel 1976 riprese finalmente a comporre. A questo periodo di silenzio seguirono negli anni seguenti numerose composizioni, in particolare di musica sacra, e tutta la vita del nostro compositore può essere considerata una continua ricerca religiosa e spirituale (è infatti profondamente cattolico) che, dal punto di vista musicale, consiste in un continuo perfezionamento del suo stile. A riguardo lo stesso Pärt parla così del suo modo di comporre: “Lavoro con pochissimi elementi – una voce, due voci. Costruisco con i materiali più primitivi – con l'accordo perfetto, con una specifica tonalità. Tre note di un accordo sono come campane. Ed è perciò che chiamo questo “tintinnabulazione”. Caratteristica della sua musica è infatti la presenza di un’armonia molto semplice, l’utilizzo di poche note – minimalismo sacro è il termine che è stato usato per definire il suo stile – e un’ampia dilatazione dei tempi musicali che rende le sue composizioni lunghe e meditative, cosicché in esse è possibile soffermarsi sulla bellezza di ogni singolo suono. Ci spiega Pärt: “Volevo una linea musicale che fosse portatrice di un'anima, come quella che esisteva nei canti di epoche lontane, come è ancora oggi nel folclore: una monodia assoluta, una nuda voce dalla quale tutto ha origine.” Suggerisco dunque fra le sue tante composizioni questi ascolti: lo Stabat Mater, il Salve Regina, e il Da pacem Domine per quanto riguarda la musica sacra; Für Alina, Spiegel im spiegel e Fratres per la musica cameristica.

Abbiamo bisogno di Pärt: il suo atteggiamento e la sua musica ci insegnano ad ascoltare, a scappare dalla finzione di questo mondo per rifugiarci in un mondo più autentico, più a misura d’uomo, ad ampio respiro. La sua musica ci insegna l’arte della contemplazione; arte fondamentale, in quanto solo da essa può sgorgare una vera azione nei confronti del prossimo e di noi stessi. E soprattutto, la sua musica ci insegna il silenzio.

bottom of page