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IL COLIBRÌ: L’EROISMO DI STARE FERMI



Il colibrì è l’uccello più piccolo del mondo. Se, dunque, non può contare su una forte presenza fisica per difendersi dai pericoli, è dotato di una ben più raffinata caratteristica che gli garantisce la sopravvivenza: un meraviglioso piumaggio iridescente, con il quale si confonde tra i colori della vegetazione. Non è difficile immedesimarsi negli sfortunati predatori dell’America tropicale, che spesso e volentieri questo esserino lascia a bocca asciutta: il suo corpicino ha gioco facile a insinuarsi tra le esplosioni di colore che punteggiano la Foresta Amazzonica. O almeno, che punteggiavano: è tristemente nota la serie di incendi boschivi che rischia di raschiare via questa tavolozza vitale, lasciando al suo posto un nero di cenere scolorito e silenzioso. Una devastazione inerte, nel senso etimologico dell’aggettivo, di origine latina: priva di ars, senza più l’arte del colore - petali e piume - e del suono - il cinguettio del colibrì.


“Il Colibrì” è il titolo del nuovo romanzo di Sandro Veronesi, edito da La Nave di Teseo, ed è raro trovare un titolo che meglio racchiuda l’essenza profonda di un libro. “Colibrì” è il soprannome affibbiato a Marco, il protagonista: un bambino minuto e grazioso, che si decide a crescere più tardi rispetto ai coetanei. Seguiamo il suo percorso tappa dopo tappa e ritroviamo, costante, una strenua resistenza ai cambiamenti di forma; diventa dottore, supera lutti indicibili e matrimoni fallimentari, ma come l’uccellino che lo rappresenta non smette mai di battere le ali per rimanere fermo e non farsi travolgere dai tumulti del mondo.


Leggere questo libro è un po’ come sdraiarsi in mezzo alla foresta e lasciarsi penetrare dai suoi colori rigogliosi con gli occhi socchiusi. Tra le palpebre tremolanti le tonalità si mischiano e sfumano e almeno in un primo momento è difficile definire e distinguere i contorni di alberi, foglie, cespugli selvatici. Ma poi l’occhio si abitua e interpreta, si inventa una strada in questo mondo semantico nuovo: come ci spiega Marco, guardare è un “atto estetico”, un’interpretazione attiva e influente sulla realtà che ci circonda.

Le prime pagine ci lasciano un po’ confusi, con la narrazione che procede per flash e mischia passato, presente e futuro. Ogni spazio temporale ed emotivo trova la sua adeguata forma di rappresentazione: schermate di SMS e trascrizioni di telefonate reinventano strumenti di conversazione quotidiana e vengono rivestiti di dignità letteraria, ma sono lettere scritte a mano a comunicarci le parole senza tempo dell’amore. Il lettore pian piano si immerge in questa varietà di stili e forme e ne riconosce un’inscindibile unità, come le tante tonalità del piumaggio di un medesimo colibrì.


Una caratteristica peculiare di questo uccellino è che i suoi colori mozzafiato non sono dovuti a pigmenti particolari delle penne, ma dalla struttura prismatica di queste: quando vengono colpite dal sole, ne scompongono i raggi, creando l’effetto iridescente. È lo stesso procedimento che attua Veronesi con il suo protagonista (che, guarda a caso, di mestiere fa proprio l’oculista); proietta su un uomo normale, un individuo dotato di sfaccettature di debolezza ed eroicità ad un tempo, un caleidoscopio di situazioni, coincidenze, imprevisti, che il lettore finisce per accettare e riconoscere come perfettamente plausibili nell’ecosistema della storia. Egli reagisce brillando, come il piumaggio di un colibrì sotto la luce tropicale: è la vita a plasmarlo e a rimettere assieme con ordine e coerenza tutti i fili della sua personalità (compreso quello che la figlia, Adele, crede di avere dietro la schiena: quanto è ingarbugliata la vita di Marco…).


Eppure, nessun personaggio si svela fino in fondo: rimane una patina iridescente anche attorno al protagonista, fino alla fine. Perché per quanto si trovi ad affrontare eventi e fatalità del tutto fuori dal normale, il dottor Carrera non smette mai di essere un uomo autentico, nel quale non possiamo che immedesimarci. È una figura dai tratti definiti, che non sbavano nei cliché di una marionetta letteraria e che mantengono l’alone d’ignoto della vita vera. Marco compie scelte che non trovano una netta spiegazione causale, ma che proprio per questo appaiono così umane da trasmetterci un senso di analogica e primitiva comprensione: come quella di un amore tanto fantasticato e così poco vissuto da assumere l’evanescenza di una piuma sotto il sole.


L’essenza del colibrì sta nella sua abilità di mimetizzazione. Allo stesso modo, Marco si mimetizza nel catalogo di personaggi che ci vengono proposti, ciascuno cesellato con cura e dotato di irriducibile originalità: spicca suo malgrado nel mezzo del calderone di vita in cui è stato gettato e che ribolle, incessantemente. Il leader è un altro, in questa storia: Miraijin, letteralmente “L’Uomo del Futuro”, l’inaspettata quanto amata nipotina del protagonista. L’Uomo del Futuro è femmina, perché non c’è futuro che non sia rivoluzione e paradosso. È lei il punto di fuga al quale convergono le linee scomposte di un’esistenza travagliata, il germoglio che cresce tra l’inerzia delle macerie.

Marco la sostiene e la guarda da lontano: è il suo centro di gravità permanente, per citare un grande cantautore italiano, come spesso fa Veronesi nel corso della narrazione. Perché sì, anche la musica trova il suo spazio in questo mosaico studiatissimo: all’autore non manca il coraggio di sperimentare, alludere, reinventare con spirito giocoso. Tanto che in un’epoca di machismi e aquile, si spinge ad esaltare la minuta resilienza del colibrì.











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