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Cronache dal paese reale: non bullizzate la nostra innocenza


San Lorenzo al Mare, ridente paesino in provincia di Imperia. Ufficialmente ospita poco più di mille anime, ma durante i mesi estivi questo numero lievita considerevolmente a causa delle orde di tedeschi che si riversano nella provincia ponentina. Orde numerose quanto ordinate e pulite, in realtà; soprattutto caratterizzate da un commovente ossequio per i limiti di velocità sull'Aurelia, con buona pace della fila di macchine autoctone che creano dietro di sé.

E così i locali si trovano in netta minoranza entro i primi d'agosto; per carità, mugugnano, ma sotto sotto guardano compiaciuti e quasi con una punta di tenerezza i piedi scottati e armati di Birkenstock di quegli omaccioni nordici mentre avanzano faticosamente sulle spiagge sassose, trasportando ombrelloni coloratissimi e un bel giro d'affari per il settore turismo. Molti di loro sono habitué del posto e alcuni borghi sono addirittura bilingue: caso esemplare di multiculturalismo è il piccolo bookcrossing allestito nella minuscola frazione di Cipressa, con una sezione in tedesco e una in italiano, come nelle stazioni delle grandi città.

Insomma, nonostante la proverbiale misantropia ligure, i “crucchi”, in origine appellativo dispregiativo ma ora affettuoso nomignolo per i turisti nordici, si sono innamorati di questo fazzoletto di terra brulla, punteggiato di ginestre e ulivi, perché ha tutto ciò che il tedesco tipo può desiderare da un luogo di villeggiatura: clima mediterraneo, buon cibo e buon vino, colline terrazzate, sonnolenta tranquillità di provincia.

Nel centro estivo per bambini delle elementari di San Lorenzo, dunque, non è assurdo trovare bimbi biondissimi che conoscono appena qualche parola di italiano. I loro coetanei del posto, però, non ci fanno troppo caso, e creano giochi comprensibili da tutti. Ho lavorato lì per due settimane col progetto alternanza scuola lavoro e sono stata assordata tanto da capricci neolatini quanto germanici.

Eppure, proprio in questo contesto mi sono resa conto di quanto il razzismo stia penetrando a fondo nella nostra cultura. Non nei confronti di chi è di origine superiore alla nostra, geograficamente parlando; c'è sempre un sud del quale considerarsi nord.

Uno dei primissimi giorni della mia attività di educatrice noto che, a seguito di un'aspra contesa per il controllo della casetta in cortile, una piccolina è rimasta in disparte, gambe incrociate e testa bassa. Si chiama Dalila ed è vispa e vivace abbastanza da tenere testa a un esercito di Sansone; non è da lei isolarsi, perciò chiedo alle sue amichette come mai abbia reagito così.

Con un candore disarmante, una di loro mi risponde che Dalila, in quanto scura di pelle, non ha lo stesso diritto delle altre di usufruire dei giochi. Quando avranno finito, allora saranno liberi per lei.

In un nanosecondo mi passano davanti tutti i “Prima gli italiani!” che quelle bambine si saranno sentite urlare dallo schermo del televisore, tutti i Tweet sulla chiusura dei porti che avranno condiviso i loro genitori, tutto l'odio che dilaga dalla radio mentre la mamma le accompagna a scuola. Rimango in silenzio per qualche secondo; quando una mocciosa fa la bulla seguendo le stesse argomentazioni logiche del nostro ministro degli interni, cosa puoi rispondere?

Come spiegare che i giochi bisogna condividerli e che anzi, giocare tutti assieme è ancora più divertente, quando la vita vera ci insegna che stanno avendo la meglio coloro che vogliono chiudere i nostri confini come un circuito per le biglie?

Finisci per balbettare confusamente qualche frase retorica e poco convincente, perché mai avresti pensato che principi e ideali considerati fondanti e quasi sottintesi dal modus vivendi di occidentali del ventunesimo secolo si rivelassero pilastri di cartapesta. Cosa che, in scala più ampia e complessa del microcosmo di un centro estivo, sta facendo la sinistra italiana: rispondere con un mormorio elitario a slogan urlati da cori selvaggi. Mancanza di voce, innocente nella sua ingenuità, o colpevole di scarsa convinzione in ciò che tenta di proclamare? Questo è il grande dramma della nostra era di passaggio: oscilliamo tra l'inseguire la flebile litania dei valori di un tempo e lo scrivere parole nuove, che abbiamo sempre sulla punta della lingua ma che nessuno è ancora riuscito a sputare fuori.

Chissà, forse ripartiremo a piccoli passi. Forse tra le mensole di Cipressa farà capolino un libro di fiabe africane e un piccolo bavarese mi chiederà di leggergliele. Questo mi suggerisce il buon senso, ma anche la storia dietro al nostro linguaggio. Il termine “crucco” deriva dal serbocroato “kruh”, che significa “pane”. I soldati italiani, durante la Prima guerra mondiale, soprannominarono così i prigionieri croati, perché, affamati, chiedevano continuamente “kruh”, pane: la stessa cosa che cerca chi sbarca sulle nostre coste, prima di venire ostracizzato dalle casette giocattolo.


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