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Medita-errando Capitolo 3: Comuni, Prefetture e patate bollenti


“Non esiste buono o cattivo tempo ma buono o cattivo equipaggiamento”

Sir Robert Baden-Powell

LA VERA EMERGENZA ITALIANA

Nelle scorse settimane abbiamo discusso di come l’Italia non sia oggetto di alcuna “emergenza migranti” e di come, anzi, a riprova di ciò, la situazione del nostro paese si iscriva perfettamente in quella che è la normalità degli altri stati europei.

Ci si potrebbe accontentare di quest’evidenza e concludere che il problema risieda, dunque, esclusivamente nella narrazione – spesso tendenziosa – del fenomeno e negli effetti che quest’ultima ha sulla percezione – spesso ingenua – dei cittadini.

In realtà, seppur tale problematicità non risieda nella magnitudo del fenomeno, né in una sua ipotetica eccezionalità, la questione migratoria sta effettivamente recando qualche disturbo allo Stato italiano, o meglio, lungo uno sguardo più cinico, ne sta semplicemente ribadendo una cronica disfunzione: l’inefficienza.

TEMPO E DENARO

Il nostro sistema di accoglienza appare inadeguato sotto almeno tre aspetti: è troppo lento per efficacemente far fronte al crescente – ma, ribadiamolo, non eccezionale – numero di domande di asilo presentate sul suolo italiano; a parità di servizio erogato risulta “irragionevolmente” costoso; infine, proprio non perché si spenda necessariamente troppo poco, ma perché le risorse stanziate non sono organizzate in modo efficiente, produce spesso risultati subottimali.

Quest’oggi ci occuperemo del secondo fra questi problemi: la malagestione.

COME FUNZIONA L’ACCOGLIENZA IN ITALIA?

La ricezione dei migranti in Italia è organizzata su due livelli: prima e seconda accoglienza. In teoria, la linea di demarcazione tra le due categorie è rappresentata dall’esame della domanda di asilo inoltrata dal richiedente.

La prima accoglienza sarebbe dunque garantita attraverso le seguenti strutture:

  • il porto di sbarco, dove i migranti approdano e ricevono le primissime assistenze;

  • gli hotspot, dove i migranti risiedono – in teoria per sole 48 ore – al fine di ricevere cure adeguate, essere identificati e presentare domanda di asilo;

  • i centri di prima accoglienza (CPA), dove i migranti sono ospitati in attesa di essere ricollocati in un ramo dell’accoglienza secondaria.

Si noti come questa fase del processo dovrebbe risultare quanto più rapida possibile in quanto l’integrazione – o l’espulsione – del richiedente non rientra tra le prerogative di questo stadio.

Al contrario, l’integrazione sociale del migrante è al centro della seconda accoglienza, ovvero, sulla carta, dei progetti SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

Che cos’è uno SPRAR?

Uno SPRAR è un progetto gestito da enti locali, per lo più comuni, che dichiarano la loro disponibilità ad ospitare un centro sul proprio territorio. Se il Ministero ritiene consona la richiesta dell’ente locale, stanzia una prima tranche di fondi triennali per l’attivazione del progetto. A questo punto, il comune interessato pubblicherà una gara d’appalto per l’effettiva gestione del servizio. Individuato l’ente gestore, che deve essere un’organizzazione no-profit, solitamente una cooperativa, il comune rimane ente di riferimento, responsabile del progetto e dei fondi ministeriali. È infatti importante sottolineare come l’ente gestore riceva fondi dal comune solo su rendicontazione. In altre parole, vengono rimborsate solo le spese sostenute. Si tratta di un sistema di accoglienza “diffusa”, che si affida, solitamente, a piccoli appartamenti, dove un numero ridotto di ospiti viene ospitato. Ciò permette di favorirne l’integrazione nel tessuto sociale locale e, al tempo stesso, riduce l’impatto del progetto sulla comunità ospitante.

E fin qui tutto bene.

Il nodo della questione gira attorno al fatto che l’iniziativa per l’apertura di un centro SPRAR spetti ai singoli comuni e non alle istituzioni centrali. Questo può comportare ovviamente alcune complicanze, poiché l’adeguata erogazione del servizio va a dipendere direttamente da quelli che sono gli interessi politici ed elettorali dei vari consigli comunali. Il grafico di sotto toglie ogni dubbio riguardo alla problematicità di lasciare ai comuni la libertà d’iniziativa per l’avvio di un progetto SPRAR.

Come si può facilmente dedurre dando un’occhiata al grafico qui sopra, all’incremento degli arrivi in Italia via mare (soprattutto nel 2015-16) non corrisponde un aumento delle presenze all’interno del circuito SPRAR. In altre parole, il numero di comuni intenzionati ad ospitare il progetto sul proprio territorio non è cresciuto in maniera ragguardevole di modo da fronteggiare l’aumento degli sbarchi.

Dove vanno a finire tutte queste persone?

Nei CAS (centri di accoglienza straordinaria), il cui nome già lascia trasparire un certo ossimoro. I CAS si sono infatti trasformati da misura “straordinaria”, per l’appunto, al fine di colmare il crescente divario tra arrivi e disponibilità degli enti locali, a norma: oggi la maggior parte dei richiedenti asilo viene ospitata in quest’ultima tipologia di struttura.

CAS E SPRAR: ANALOGIE E DIFFERENZE

Ok, i migranti sono accolti prevalentemente nei CAS anziché, come dovrebbe, negli SPRAR: e quindi?

Benché le differenze possano apparire minime ad uno sguardo superficiale, i due progetti rispecchiano approcci all’accoglienza spesso antitetici. In particolare differiscono su una serie di punti specifici:

  • Riguardo all’iniziativa. Infatti, i CAS vengono creati, attraverso l’azione delle Prefetture, dal Ministero degli Interni, senza richiedere approvazione alcuna da parte dei comuni. Per quanto concerne gli SPRAR si segue la pratica opposta, essendo infatti i comuni stessi a proporsi per accogliere i progetti;

  • Riguardo il modello di accoglienza. Infatti, i CAS – di fatto, sulla carta non sarebbe necessariamente così – tendono a prediligere un modello di accoglienza collettiva, ovvero dove i rifugiati sono ospitati in centri di media grandezza, vivendo in comunità. Questo perché, nelle gare d’appalto, si richiede all’ente gestore di fornire una serie di servizi (di controllo e di assistenza sanitaria soprattutto) difficilmente attuabili su un modello di accoglienza diffuso; di contro, il modello SPRAR predilige l’accoglienza diffusa, ospitando i rifugiati in strutture più piccole e distribuite sul territorio;

  • Riguardo i servizi erogati agli ospiti. I CAS non fanno infatti ufficialmente parte del sistema di accoglienza secondaria e non si prefiggono, dunque, come obiettivo, l’integrazione sociale, culturale e lavorativa dell’ospite, ma solo il suo mantenimento in condizioni decorose in attesa dell’esame della richiesta d’asilo da lui presentata. Sono dunque, sulla carta, concepiti come strutture transitorie, benché spesso i periodi di permanenza possano notevolmente prolungarsi; di contro, l’inserimento dell’ospite nel tessuto sociale italiano è esattamente lo scopo principale del sistema SPRAR;

  • Per quanto concerne i finanziamenti. Gli enti gestori di un CAS ricevono infatti dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo– di solito, in sede di gara la cifra può variare – i famosi 35 euro al giorno a migrante. Successivamente, la Prefettura competente potrà monitorare come e quanti di questi fondi vengano effettivamente spesi; diversamente, l’ente gestore di uno SPRAR riceve i finanziamenti per l’erogazione dei servizi solo previa rendicontazione delle spese al comune, che rimane l’ente responsabile del progetto ed il recipiente dei fondi per i servizi di asilo.

TIRIAMO LE SOMME

Questa settimana abbiamo visto come in Italia si sia affermato come principale canale per l’accoglienza il sistema CAS. Questo a causa dell’ostruzionismo da parte dei comuni al progetto SPRAR, con ogni probabilità per ragioni politiche (questo è un punto da approfondire, che l’autore si riserva di analizzare più nel dettaglio non appena possibile, vi saranno aggiornamenti quanto prima: fare un acconto del colore politico di ogni comune italiano non è cosa semplice).

Le ripercussioni sono tutt’altro che banali. Infatti, il sistema CAS tende ad essere caratterizzato da una più disomogenea qualità del servizio erogato (sì, ci sono privati che lucrano sulla pelle dei migranti, così come, però, tante persone che lavorano onestamente) perché non v’è alcun vincolo riguardante le politiche di reinserimento sociale dei soggetti – sta, appunto, alla buona fede del gestore trasformare quella che sulla carta è una soluzione emergenziale, temporanea, in un luogo di integrazione – e perché i controlli sono meno efficaci, essendo l’erogazione dei fondi automatica in base al numero di ospiti. In poche parole, rispetto allo SPRAR, il sistema CAS garantisce un servizio più disomogeneo sul territorio, spesso più costoso – nello SPRAR il comune ha il controllo assoluto su tutte le voci di spesa dell’ente gestore –, che offre più possibilità agli enti gestori di operare nell’illecito, che ha un impatto maggiore sulla comunità locale ospitante e che rende più difficile l’integrazione sociale, culturale e lavorativa degli ospiti.

Quindi, perché mai, cari sindaci, cari consigli comunali di tutta Italia, dovreste opporvi all’attivazione del progetto SPRAR sul vostro territorio? Davvero preferite un CAS, imposto dal Ministero, ad un sistema di accoglienza diffuso, leggero, non invasivo, del quale potreste in tutta autonomia controllare e verificare le spese? Vale – politicamente – così tanto la possibilità di rinviare la responsabilità di un’azione a qualcun altro? Non avrete mica così tanta paura dei vostri stessi elettori?

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