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Medita-errando Capitolo 4: Corsi e Ricorsi Storici


“Non c'è tirannia peggiore di quella esercitata all'ombra della legge e sotto il calore della giustizia”.

Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi, 1748

FACCIAMO IL PUNTO

Nel precedente numero di Medita_errando si è discusso di come il sistema di accoglienza italiano sia inefficiente sotto un numero considerevole di aspetti. In particolare, si è evidenziato che l’ostruzionismo – o, interpretazione più ingenua, la mancanza di iniziativa – dimostrato dalle amministrazioni comunali nei confronti del modello SPRAR ha, di fatto, aperto la strada per la trasformazione del sistema CAS da misura emergenziale a norma. Le conseguenze – negative – di tale metamorfosi sono svariate: gli enti locali che ospitano un CAS non hanno infatti alcun controllo sulle spese – o peggio, sulle mancate spese – intraprese dall’ente gestore e sarebbe superfluo ribadire come un comune possa monitorare più efficientemente quelle stesse spese rispetto ad una prefettura; di più, i finanziamenti all’ente gestore vengono erogati, nel sistema CAS, automaticamente, e non previa rendicontazione delle spese effettivamente sostenute come in uno SPRAR.

Sono dunque, paradossalmente, proprio i consigli comunali che si oppongono all’accoglienza sul proprio territorio – lascio dedurre la maggioranza che li guida – a creare quella zona grigia dove è possibile la malagestione dei fondi – i famosi 35 euro al giorno che rimpinguerebbero, purtroppo a volte è vero, le tasche di privati malfattori – divenuta argomento tanto caro ai sostenitori delle politiche di chiusura all’immigrazione.

Non bastasse, oltre ad essere meno efficiente, un sistema di accoglienza che si fonda sull’apertura massiccia di CAS è destinato ad essere anche meno efficace: pressoché a parità di costi, non vengono infatti previste come obbligatorie attività cruciali per l’inserimento sociale, culturale e lavorativo degli ospiti, obiettivi lasciati all’esclusiva iniziativa, alla buonafede, del gestore.

E questa è solo una parte della questione: oltre alle inefficienze causate dall’inadeguatezza del sistema recettivo di per sé, avevamo tralasciato le lentezze del processo di esaminazione delle richieste di protezione internazionale. Come vedremo oggi, non solo il sistema di valutazione delle domande italiano è estremamente lento e, di conseguenza, costoso, ma è responsabile anche di un considerevole numero di ingiustizie, frutto di esami spesso frettolosi e grossolani delle situazioni dei richiedenti.

PROTEZIONE INTERNAZIONALE QUESTA SCONOSCIUTA

Iniziamo dalle basi, ovvero dall’analizzare brevemente il concetto di protezione internazionale, operazione doverosa dal momento che nemmeno il nostro Ministro degli Interni, in questo post sulla sua pagina Facebook ufficiale, sembra avere le idee molto chiare a riguardo.

Lo status di rifugiato è infatti solo una delle due forme che la protezione internazionale – come stabilito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951) – può assumere, cosa che il Ministro distrattamente omette di specificare. Quali sono le due forme di protezione internazionale? La prima è appunto l’asilo politico, ovvero quella a cui fa riferimento Matteo Salvini nel suo post. Vi hanno diritto tutti quegli individui che abbiano subito persecuzioni – a causa della loro etnia, religione, orientamento politico … – nel proprio paese di origine e che non vogliano avvalersi della protezione fornita dal dato paese, proprio perché è esso stesso il perpetuatore delle dette violenze.

La seconda è la protezione sussidiaria, che si differenzia dall’asilo per il fatto che il richiedente non debba necessariamente dimostrare di aver effettivamente subito azioni persecutorie – le medesime sopramenzionate – ma di correre il rischio di subire un danno grave – condanna a morte, trattamento inumano … – qualora rientrasse nel paese di origine.

Vi è poi una terza forma di tutela introdotta dallo Stato italiano – non prevista quindi dalla Convenzione di Ginevra – nel 1998: la protezione umanitaria. Viene rilasciata quest’ultima tipologia di protezione quando non sussistono i requisiti all’ottenimento dell’asilo politico né della protezione sussidiaria, ma persistano comunque gravi rischi, di carattere, a punto, umanitario, per l’incolumità del richiedente qualora rientrasse nel paese d’origine. In questo modo, vengono tutelate tutte quelle persone provenienti da situazioni di violenza, instabilità politica, carestia, e disastri ambientali.

I NUMERI VERI DELL’IMMIGRAZIONE

Se si guarda alle statistiche riguardanti gli esiti dell’esame delle richieste di protezione internazionale – dati dello stesso Ministero degli Interni per lo stesso anno 2016 – ci si accorgerà di come le affermazioni dell’attuale ministro possano risultare, quantomeno, fuorvianti.

Infatti, benché quanto riportato da Salvini sia formalmente corretto, si potrebbe essere tentati di concludere che, siccome i riconoscimenti di asilo politico rappresentino, in effetti, solamente il 5% per cento sul totale delle domande ricevute, il restante 95% sia composto da “clandestini”. Questo errore troverebbe radice, appunto, sulla mancata conoscenza delle altre due forme – oltre all’asilo politico – che la protezione internazionale può assumere in Italia: di fatto, se si sommano al 5% menzionato da Salvini, il 21% di protezioni umanitarie ed il 14% di protezioni sussidiarie riconosciute, la percentuale totale di richiedenti che si vede riconoscere una forma di protezione ammonta al 40% delle richieste; la percentuale di domande respinte, invece, rappresenta il 56% percento del totale, comunque molto.

Ciononostante, il dato appena presentato potrebbe rivelarsi poco accurato ed inefficace nel fornire una comprensione del fenomeno sufficientemente attinente alla realtà: in primo luogo, perché non apre una prospettiva abbastanza ampia sull’andamento degli esiti delle domande; in secondo luogo, perché il dato sui ricorsi presentati – e vinti – dai richiedenti a seguito dei dinieghi non viene presentato – dato che, misteriosamente, il Ministero si rifiuta di pubblicare.

LA CRESCENTE PERCENTUALE DI DINIEGHI

Se si osserva lo stesso dato presentato di sopra ma in riferimento all’anno 2012, si potrà facilmente notare come la percentuale di dinieghi rappresentasse una percentuale molto più bassa rispetto al totale delle domande ricevute, anch’esso di molto inferiore.

In particolare, la percentuale di richieste accolte – in una delle tre forme possibili –ha rappresentato, nell’anno 2012, il 64% del totale, mentre i dinieghi solamente il 17%.

In altre parole, in soli 4 anni, i dinieghi hanno manifestato un incremento del 39%, passando dal 17% del 2012 al 56% del 2017: curioso quantomeno.

Per delineare un quadro complessivo, il grafico qui sotto mette in relazione il numero di richieste di protezione internazionale ricevute dallo Stato italiano nel periodo 2012-2017 (linea grigia) con la percentuale che i dinieghi (linea fucsia) hanno rappresentato rispetto al totale ogni anno.

Come si può notare, all’aumentare delle richieste presentate, si osserva un incremento simile nella percentuale rappresentata dai dinieghi: di nuovo, curioso quantomeno.

È un po’ come se al crescere del numero di iscritti in una scuola, aumentasse la percentuale – sottolineo: la percentuale, non l’ammontare totale, cosa che sarebbe normale – di studenti bocciati ogni anno: sarebbe alquanto bizzarro.

Davvero molto strano che la frequenza con cui un diritto – perché di un diritto stiamo parlando, mica di una concessione, un’elemosina – viene riconosciuto sia correlata con il numero di individui che ne fanno richiesta.

LA COMPOSIZIONE DELLE COMMISSIONI TERRITORIALI

Davvero tutto molto strano fino a che non si volge l’attenzione alla composizione delle commissioni territoriali, gli organi preposti al primo esame delle richieste di protezione internazionale.

In Italia le commissioni territoriali sono 20. Ognuna è composta da un Viceprefetto, che la presiede, da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante dell’Ente territoriale di riferimento – solitamente la Provincia – e da un soggetto designato dall‘U.N.H.C.R. (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati). Potrebbe sembrare tutto a posto e invece la composizione organica delle commissioni cela, “all’ombra della legge”, la violazione del principio fondante dello stato di diritto: la tripartizione dei poteri.

Chi è, infatti, un Viceprefetto se non un rappresentante – ed un dipendente – del Ministero degli Interni? E non vale forse lo stesso per i funzionari della Polizia di Stato – anch’essa facente capo al medesimo Ministero?

Quali sarebbero poi le competenze in materia di diritto internazionale e di immigrazione di un rappresentante eletto locale?

Sicuramente un soggetto nominato dall’U.N.H.C.R. avrà competenze in materia di immigrazione – di quello si occupa l’agenzia – ma per quanto concerne la competenza giuridica chi potrebbe mai garantire?

È profondamente scorretto che in un organo adibito a stabilire se un soggetto abbia diritto – sottolineiamo, nuovamente, diritto – o meno alla protezione internazionale non sieda nemmeno un uomo di legge, un giudice, bouche de la loi; che tutta la questione sia lasciata in mano a dei dipendenti del Ministero degli Interni, del quale perseguono gli interessi politici – per definizione – anziché l’applicazione della legge. Come può garantire un organico sì composto il corretto dispiegarsi del diritto, l’imparzialità, assicurare l’assenza di contaminazioni – politiche – aliene e nocive al compito di esaminare le richieste? Come può un tale sistema scacciare il sospetto che la vita di tante persone – di questo si parla, di vite e di persone – non sia stata mercificata, svenduta per il raggiungimento di obiettivi – maldestramente, dando un occhio ai risultati delle passate elezioni – elettorali.

Quis custodiet ipsos custodes? Che l’aumento della percentuale di dinieghi sia dunque conseguenza – illecita – di un giro di vite Ministeriale? Oppure naturale – e giusta – risposta ad un aumento di richieste da parte di persone non aventi diritto?

Per provare a rispondere a questi quesiti si dovranno analizzare i dati sul numero di ricorsi vinti da parte dei richiedenti respinti dalle commissioni territoriali. Misteriosamente, il Ministero non pubblica dati a riguardo, fatto che non può che alimentare il sospetto attorno alla questione. È bene puntualizzare come il ricorso venga esaminati da un tribunale, in cui a giudicare sono questa volta dei giudici – e non dei poliziotti o degli assessori provinciali.

L’OMISSIONE DEL DATO SUI RICORSI

L’unico dato disponibile riguardo ai ricorsi presentati dai richiedenti asilo respinti dalle commissioni territoriali è disponibile grazie al lodevole lavoro di Atlante SPRAR. Nel rapporto annuale per il 2016 sono infatti riportati i risultati di una ricerca condotta su un campione di 4.966 ricorrenti in primo grado– una popolazione sufficientemente ampia per poter considerare i risultati statisticamente rilevanti – a cui era stata precedentemente negata la protezione internazionale da parte delle commissioni territoriali.

I risultati della ricerca sono sorprendenti: emerge infatti che nel 49,8% dei casi esaminati il tribunale ribalta l’esito dell’esame svolto dalla commissione territoriale.

In altre parole, la metà delle volte la commissione commette un errore nell’esaminare la situazione del richiedente: è una percentuale altissima considerando che in media, un secondo grado di giudizio in tribunale, conferma la prima decisione nel 90% dei casi.

Questo perché il Ministero degli Interni può dare linee guida ai propri funzionari e dipendenti, può porre ostacoli al riconoscimento della protezione internazionale, risultante in un maggior numero di dinieghi in primo grado. Non può, tuttavia, alterare quelle norme che generano il diritto stesso alla protezione internazionale, quelle stesse norme che, fortunatamente, i giudici applicano, immuni da condizionamenti di carattere politico, nell’accogliere una percentuale tanto alta di ricorsi.

Per rendere l’idea, immaginate che la metà delle volte che, per qualunque motivo, finiate in tribunale, la sentenza sia sbagliata, di dover ricevere una pena che in realtà non meritate. Immaginate di avere il 50% di possibilità di essere bocciati alla maturità, piuttosto che al test di medicina, o qualunque altra prova importante per il vostro futuro, perché le domande che vi vengono poste sono sbagliate e non perché voi siate impreparati. Ecco noi i richiedenti asilo li trattiamo così.

Curiosamente, se si corregge il dato sui dinieghi rispetto al 2016, moltiplicandolo per la percentuale di ricorsi vinti, si otterrà una percentuale molto simile alla situazione del 2012: solo il 28% (= 56% x 50%) delle richieste ha effettivamente esito negativo.

GIUSTIZIA A CARO PREZZO

Si potrebbe essere tentati di pensare che, alla fine, tutto è bene quel che finisce bene: che, grazie ai tribunali, giustizia viene fatta e che gli errori di poliziotti ed assessori provinciali – per dare il beneficio dell’incompetenza al posto dell’aggravante di malafede – vengono riparati.

La realtà è ben diversa: l’esame di un ricorso comporta dei tempi piuttosto lunghi, che risultano in un aumento dei costi – inutile, dovuto all’inefficienza anziché al potenziamento del servizio – del sistema di accoglienza, oltre ad occupare futilmente delle aule di tribunale. Tutto questo senza contare il danno che si reca ad una persona trattenendola in un CAS – delle cui limitazioni abbiamo precedentemente discusso – invece di introdurla ad un percorso di reinserimento sociale, culturale e lavorativo, dei cui benefici, monetari e non, godremmo tutti.

Solo un interrogativo che mi ronza nel cranio proprio ad acquietarlo: ma perché tutto ciò?


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