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Medita_errando Capitolo 5: Risorse o Parassiti?


Francisco Goya, El Aquelarre, 1823

Definitivamente conclusasi questa lunga estate, siamo giunti all’ultimo capitolo di Medita_errando: è dunque il momento di tirare le somme del discorso affrontato in questi due mesi, delineando un quadro d’insieme e, alla luce di ciò, esaminare quella che parrebbe a tutti gli effetti essere la nuova linea del governo.

Nel corso degli ultimi anni, il dibattito politico attorno all’immigrazione è andato via via polarizzandosi su posizioni sempre più estreme ed antitetiche, dando vita a visioni e narrazione ogni volta mutualmente esclusive, rifiutando ogni possibile, e spesso ragionevole, convergenza – ora trasformata in una sorta di resa all’altro, al nemico.

Da un lato, una certa sinistra – “una certa” poiché quello che nel linguaggio corrente chiamiamo “sinistra” è in realtà un animale disorganico, tendente all’autodisgregazione – ha per anni proposto ai cittadini italiani una trama a lieto fine – quella dell’equazione automaticamente verificata “migranti = risorse” – che nessuno è stato davvero in grado di giustificare, di rendere credibile.

Dall’altro, la fiumana salviniana è stata gradualmente – e molto più efficacemente – persuasa della verità dell’opposto identico, ovvero che gran parte di quello che proviene da oltre frontiera – non solo persone, ma anche merci – rechi inevitabilmente con sé esclusivamente una minaccia, un costo, un rischio. Rischio che può assumere, all’occasione, le sembianze più disparate: dalla sicurezza a fantomatici piani di sostituzione etnica, passando per minacciose penetrazioni commerciali straniere. Oneri che, nella retorica nazional-sovranista, il Belpaese starebbe sostenendo in solitaria, genuflesso agli interessi degli altri paesi europei.

Come spesso accade – e come ho provato a spiegare qui in questi ultimi mesi – la verità giace da qualche parte nel mezzo: rappresentare infatti l’improvvisa esposizione ad un flusso migratorio alla strenua della scoperta di un giacimento petrolifero è quantomeno scorretto; similmente, la retorica salviniana, sostenuta da un’efficiente ma capziosa rielaborazione di legittime paure dell’elettorato, assieme ad una sapiente strumentalizzazione di evidenze di vario genere (dati, episodi di cronaca…), ha generato distorsioni del reale entrate ormai nel dibattito corrente.

La discussione attorno al fatto che l’immigrazione possa rappresentare una finestra di opportunità oppure un fardello per il nostro paese non può che spostarsi su un piano di analisi più complesso, non riducibile ad una semplice serie di antinomie. Non a caso una corposa letteratura si è sviluppata attorno a questo interrogativo ed in particolare sulla relazione tra immigrazione e eventuali cambiamenti nei livelli salariali e nei tassi di occupazione nella popolazione residente.

Per citarne alcuni, Friedberg e Hunt (1995), Borjas (1995, 2003), Card (2001, 2005, 2009) e Card e Lewis (2007) non osservano alcun effetto significativo (né positivo né negativo) sulle condizioni d’impiego dei lavoratori residenti poco o non qualificati a seguito dell’aumentare del numero di immigrati. Diversamente, Ottaviano e Peri (2010) evidenziano un effetto addirittura positivo dell’immigrazione sui salari medi dei lavoratori poco qualificati, in netto contrasto con la diffusa cantilena del “ci rubano il lavoro”.

Un altro importante meccanismo oggetto di studi è il cosiddetto ladder effect (“effetto scala”): in parole povere, l’arrivo di lavoratori stranieri poco qualificato potrebbe “spingere” verso settori più specializzati dell’economia la popolazione nativa, mediamente più qualificata. In questa linea, Kremer e Watt (2006), Cortes e Tessada (2009), Cortes e Pan (2009) e Farré, Gonzalez e Ortega (2009) verificano empiricamente la presenza di tale meccanismo. Di più, l’effetto risulta avere un impatto maggiore sulla forza lavoro femminile mediamente qualificata, spesso segregata in mansioni poco specializzate.

Curiosamente, non v’è alcuna evidenza empirica che possa confermare l’idea per cui l’arrivo di forza lavoro poco qualificata possa costituire un serio attentato alle condizioni d’impiego della popolazione nativa. In altre parole, no, nessuno vi ruberà il lavoro. Piuttosto, è ben più probabile che riceverete un aumento o una promozione come effetto indiretto dell’immigrazione.

Non bastasse, come a più riprese affermato dal presidente dell’INPS Tito Boeri, i contributi e le imposte versati dai lavoratori immigrati, sottraendo i servizi e le prestazioni erogate dallo Stato agli stessi, risultano in un saldo netto positivo per le finanze pubbliche.

Infine, la Fondazione Leone Moressa delinea un quadro generale della situazione italiana, stimando che l’intero fenomeno migratorio – andando ad includere, quindi, anche tutti i costi di soccorso ed accoglienza sostenuti dallo stato – comporti un guadagno netto compreso tra i 2,1 miliardi di euro all’anno – qualora si considerino i costi medi dei servizi erogati agli immigrati – e i 2,8 miliardi – considerando invece i costi marginali. Tutto questo nonostante le inefficienze – le abbiamo evidenziate nei capitoli precedenti di questa rubrica – che caratterizzano il nostro sistema di accoglienza.

Appurato dunque che l’immigrazione non comporti né un aumento della disoccupazione né una pressione a ribasso sui salari dei lavoratori italiani e che anzi, in modo magari controintuitivo, possa contribuire ad un aumento dell’occupazione e delle retribuzioni e ad un guadagno netto complessivo per lo stato italiano pari quasi a 3 miliardi di euro, viene da chiedersi perché lo stato italiano non faccia tutto il possibile per rendere il sistema di recezione dei migranti il più efficiente ed efficace possibile. In parole molto povere, minore il tempo che l’amministrazione impiegherà ad esaminare la domanda di un richiedente ed a regolarne la posizione – anche attraverso il rimpatrio – minori saranno anche i costi sostenuti dallo stato per il mantenimento di questa persona. Di riflesso, minore il tempo che il sistema di accoglienza impiegherà per completare l’inserimento lavorativo e sociale del migrante, prima lo stato inizierà a ricavarne un ritorno attraverso tasse e contributi. Un ragionamento piuttosto semplice e lineare.

Perché allora un governo votato alla riduzione di costi e sprechi – soprattutto in materia di immigrazione – altro non fa che rendere l’apparato più lento e meno capace di produrre un risultato economicamente auspicabile?

Lo scorso 24 settembre il Consiglio dei Ministri ha infatti approvato, all’unanimità, il cosiddetto “Decreto Salvini” in materia di immigrazione e sicurezza. Tralasciando la vergognosa decisione di abolire la Protezione Umanitaria, tra i provvedimenti contenuti nel decreto vi è il sostanziale abbandono del modello SPRAR – una forma di accoglienza diffusa sul territorio, la cui efficacia nel promuovere l’integrazione sociale, culturale e lavorativa degli ospiti è stata a più riprese provata – a favore dell’impiego di centri di accoglienza imponenti, sulla linea del modello CAS – la cui inefficacia nell’attendere agli stessi obiettivi, di contro, è un dato di fatto.

Nelle intenzioni del legislatore, questo vorrebbe ottimizzare i costi dell’accoglienza, scopo assolutamente lecito, benché probabilmente disatteso: si dimentica infatti che con ogni probabilità la capacità del nostro sistema di assorbire i migranti nel tessuto lavorativo – e sociale – verrà in questo modo consistentemente rallentata, se non azzerata, facendo dell’accoglienza – a questo punto sì, che sia il vero obiettivo? – meramente un costo.


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