top of page

La Festa dell'Ignoranza


Fa quasi tenerezza l'oblast' di Kaliningrad, enclave Russa rannicchiata tra Polonia e Lituania. Un lembo di terra sul Mar Baltico, abbandonato da gran parte dei suoi stessi abitanti durante la Seconda Guerra Mondiale: la popolazione autoctona tedesca temeva - e non a torto - l'avanzata dell'Armata Rossa, che a seguito del conflitto sostituì letteralmente la popolazione del luogo con nuovi abitanti, rigorosamente russi. Le antiche radici germaniche sono state pressoché interamente estirpate, a cominciare dal nome. L'originario Königsberg è un nome parlante anche per le lingue romanze, nella sua variante latina: Regiomontium, "montagna del re". Fondata nel Medioevo dall'ordine dei Cavalieri Teutonici, seppe stare al passo coi tempi, dando i natali, circa mezzo millennio dopo, a uno dei più brillanti esponenti dell'Illuminismo: Immanuel Kant.

Una storia tutt'altro che disprezzabile, verrebbe da pensare, a dispetto dell'attuale collocazione geografica della regione: eppure una penna acuta come quella di Milan Kundera fa di questo fazzoletto di terra nordica un eroico baluardo di mediocrità. Ne "La festa dell'insignificanza", lo scrittore vuole dimostrarci, attraverso una matassa narrativa piuttosto ingarbugliata e digressioni apparentemente estemporanee, che la vera essenza dell'esistere - la "cosa in sé", per usare le parole del pensatore precedentemente citato - è proprio l'endemica insignificanza dell'essere umano, che soffre e lotta e si fa del male perché si ostina a prendere la vita sul personale. "L'essere umano è una solitudine", ci dice Kundera. E a pensarci bene è una definizione così lapidariamente tragica e inoppugnabile della nostra condizione che naufraga nel ridicolo, scioglie i nostri volti tesi e sofferenti in una risata liberatoria.

In questo contesto si inserisce la storia di Kalinin, presidente del soviet supremo in onore del quale è stata ribattezzata l'autorevole Königsberg. Ma il dirigente bolscevico, se fosse nato qualche secolo prima, più che re della montagna sarebbe stato un pavido scudiero, secondo il racconto che ce ne fornisce Kundera. Innocuo tirapiedi di Stalin, avrebbe sofferto di problemi di prostata che lo costringevano a un continuo avanti e indietro dal bagno, persino nei discorsi ufficiali. Stalin si prendeva gioco del poverino con tutta la crudeltà che possiamo immaginarci dal dittatore di uno stato totalitario, eppure lo spietato rivoluzionario finì per battezzare la città in onore di una tale nullità. In questo atto Kundera vede un lampo di inspiegabile tenerezza in un cuore d'acciaio, ma possiamo anche leggerlo come un gesto di disprezzo indirizzato al cittadino tedesco storicamente più illustre e ai valori liberali di cui si faceva portavoce. Da quel momento in poi, la patria di Immanuel Kant avrebbe reso gloria a un incontinente.

Kaliningrad è diventata tristemente famosa in questi giorni per lo spregevole atto vandalico compiuto, stando alle indagini, da gruppi neo-nazionalisti, fortemente contrari all'idea di intitolare il nuovo aeroporto al celebre filosofo. Potrebbe sembrare l'occasione per fare pace con la toponomastica e per esaltare un genio autoctono piuttosto che un grigio funzionario bolscevico, ma a quanto pare molti abitanti hanno preso proprio sul serio il messaggio de La festa dell'insignificanza e alla mediocrità sono affezionati; primo fra tutti il viceammiraglio della flotta del Baltico Igor Muhametshin, che ha bollato il più brillante pensatore Illuminista come "traditore della patria" e ha affermato orgogliosamente che né lui né i suoi marinai leggeranno, né hanno mai letto, le sue opere. Che dire, preferirà la prosa scorrevole di Kundera; o piuttosto, leggere in generale non sarà la sua passione.

Kant ricorda che fu la scritta satirica sull'insegna di un'osteria olandese, "Per la pace perpetua", affiancata dal disegno di un cimitero, a suggerirgli il titolo del suo celebre classico del pacifismo giuridico. L'esistenza umana è accompagnata da lotta e sopraffazione fino alla sua conclusione, che si tratti di capi di stato o uomini comuni.

Il filosofo è ben consapevole della difficoltà del suo progetto, ovvero stilare una serie articoli che indichino all'umanità la via per rimuovere il termine "guerra" dal vocabolario di tutte le lingue del mondo. Siamo ancora lontani da questo auspicabile traguardo, ma l'elaborazione teorica si è già spesa nella prassi: un secolo e mezzo dopo la sua pubblicazione le grandi potenze mondiali hanno rispolverato il libello, relegato nei piani alti delle biblioteche per tutto l'Ottocento dai fermenti nazionalistici, e ne hanno fatto tesoro per la creazione della Società delle Nazioni, poi Onu. Per uno strano scherzo del destino, il suo defunto ideatore non ha trovato quella quiete che considerava certa, almeno nell'aldilà; i contestatori di un tempo sono tornati alla ribalta e non gli danno pace, nemmeno da morto. E quella vernice rosa che deturpa la sua statua, che svilisce il gesto posato della mano protesa verso un ipotetico ascoltatore, sembra quasi l'ennesimo episodio di incontinenza di Kalinin, questa volta non nei ben nascosti bagni del Consiglio Supremo, ma platealmente in faccia a chi ha sognato e continua a sognare un mondo finalmente libero dalla barbarie.


©2018 by Xanthippe. Proudly created with Wix.com

  • Black Instagram Icon
bottom of page