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La musica di Wagner, Lewis, e la ricerca della gioia

Richard Wagner segnò indelebilmente la storia della musica.

La sua idea di melodramma come opera d’arte totale che racchiudesse in sé musica, poesia, drammaturgia, coreutica e arti visive cambiò il modo di concepire e rappresentare le opere liriche, modificò le strutture fisiche dei teatri, anticipò il cinema. Soprattutto raccolse i sogni e le inquietudini dell’uomo tardo-ottocentesco, diviso fra speranze, esaltazioni, ricordi dell’ormai lontano mondo dell’epica e strazianti angosce interiori, spettri del futuro esistenzialismo novecentesco. Fin da subito la critica si spezzò in due: da una parte c’era chi Wagner lo amava, dall’altra chi lo detestava. Wagner o si ama o si detesta. Raramente esistono vie di mezzo. Sulla scia di Wagner c’era chi, come Mahler, portò avanti l’idea romantica della musica vista come veicolo di espressioni, immagini, storie, racconti. C’era poi chi, come Stravinskij, opponendosi a lui auspicava il ritorno a un formalismo secondo il quale la musica non esprime nient’altro che se stessa, e dunque va goduta come oggetto estetico per il suo valore intrinseco, e non per ciò che pretende di raccontare. Se per Wagner la musica è un dramma di cui bisogna ascoltare ammaliati la narrazione, per Stravinskij è un edificio di cui bisogna contemplarne la fattura.

Più generazioni di artisti e intellettuali si sono confrontate con Wagner, e la sua persona è stata oggetto di un culto quasi religioso, come prima di lui lo erano stati Bach, riscoperto nell’800, e

Beethoven.

Di questa fervente ammirazione non fu immune neanche Clive Staples Lewis, il celebre autore de “Le cronache di Narnia”, professore universitario, filosofo e apologeta fra i più grandi del secolo scorso. Della musica di Wagner ci offre un’interessante e originale descrizione nel libro “Sorpreso dalla gioia”, un’autobiografia che si concentra sui primi anni della sua vita, in particolare sugli anni dell’adolescenza.

La musica wagneriana era capace di ridestare nel giovane Lewis l’assopita sensazione della “gioia”, che l’autore inglese definisce come una sorta di inesprimibile e romantico struggimento verso l’infinito, sensazione intima e contemplativa che provava da bambino e che il mondo, con il suo cinismo e la sua monotonia, lentamente gli stava sottraendo. Sensazione che, quasi voglia nascondersi, scompare non appena l’uomo prende coscienza di essa. In questo senso, Wagner era capace di far sognare, di ridestare lontani desideri, di offrire brame visionarie; soprattutto, essa era uno dei più importanti veicoli di quella mitologia nordica che fondamentale importanza avrà tanto per Lewis (in particolare per i suoi aspetti filosofici) quanto per l’amico e collega Tolkien (di cui prenderà ispirazione soprattutto per i suoi aspetti letterari).

Lascio dunque la parola a Lewis, che prima ancora di scoprire Wagner o sapere chi fosse Sigfrido era rimasto ammaliato dalla nordicità attraverso alcune illustrazioni trovate casualmente in un libro illustrato da Arthur Rackham. La coscienza della “nordicità” è condizione necessaria per comprendere appieno buona parte della produzione wagneriana. Ci racconta così:

La nordicità pura prese possesso di me: ebbi la visione di immensi, chiari spazi sospesi sopra l’Atlantico nell’interminabile crepuscolo dell’estate nordica, e una sensazione di distacco e di gravità...e quasi nello stesso momento mi resi conto di aver già conosciuto tutto ciò molto, molto tempo prima (…) in Tegner’s Drapa [=poesia di Longfellow], e che Sigrido (qualunque cosa fosse) apparteneva allo stesso mondo di Balder e delle gru che migrano verso il sole. E con questo tuffo nel mio passato affiorò subito, togliendomi quasi il respiro, il ricordo della gioia, la cognizione di avere avuto un tempo ciò che da anni non avevo più, di essere finalmente tornato in patria da un esilio in terre deserte; e il Crepuscolo degli Dei e la mia passata gioia, entrambi remoti e irraggiungibili, fluirono in un’unica, intollerabile sensazione di desiderio e di perdita, che d’un tratto fu un tutt’uno con il dissolversi della stessa emozione: mentre ora mi guardavo in giro per l’aula polverosa come un uomo che riprende lentamente i sensi, essa era infatti già svanita, mi era sfuggita nello stesso momento in cui dicevo “Eccola”

Procedendo con la narrazione, Lewis arriva al momento in cui incontrò finalmente Wagner:

In tutto questo tempo, non avevo ancora sentito una sola nota di Wagner, sebbene la stessa forma delle lettere che costituivano il suo nome fosse divenuta per me un simbolo magico. Durante le vacanze che seguirono (…) sentii per la prima volta il disco della Cavalcata delle Valchirie. Oggi fa ridere e, in effetti, avulsa dal suo contesto per fare da sinfonia, può essere una povera cosa. Ma io avevo questo in comune con Wagner, che non pensavo a sinfonie ma a un dramma epico. (…) Da quel momento in poi, tutto il mio denaro se ne andò nell’acquisto di dischi di Wagner (soprattutto l’Anello, ma anche il Lohengrin, e il Parsifal) e, all’occorrenza, non chiedevo altri regali.

La mia concezione della musica non subì, dapprima, grosse modifiche. La “musica” era una cosa, la “musica wagneriana” era un’altra, e non c’era nulla che le ravvicinasse, non si trattava di un nuovo piacere ma di un piacere di nuovo genere, ammesso che “piacere” sia la parola giusta, anziché turbamento, estasi, sbigottimento, “un conflitto di sensazioni senza nome”.

(…)

Durante la vacanza a Dundrum, pedalando in bicicletta tra i monti Wicklow, cercavo sempre, involontariamente, scene che appartenessero al mondo wagneriano: qui un’erta collina coperta di abeti dove Mime incontrava Siglinda, laggiù un’assolata radura dove Sigfrido ascoltava l’uccello, oppure un’arida valle rocciosa dove l’agile corpo squamoso di Fafner emergeva dalla sua caverna.

Da lì in avanti, le porte dell’immaginazione saranno totalmente aperte nel mondo interiore di Lewis, che non a caso definì quel periodo della sua vita come un “rinascimento”, cioè “quel meraviglioso risveglio che sopravvive nella maggior parte di noi quando la pubertà è completa”, che è giusto chiamare “rinascita e non nascita, risveglio e non sveglia, perché per molti di noi, oltre che una cosa nuova, rappresenta anche il recupero di cose possedute da bambini e perdute da ragazzi.”


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