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Tormento e inazione. La modernità e umanità di Amleto.


Una delle opere più celebri del drammaturgo elisabettiano William Shakespeare, Hamlet, Prince of Denmark, ha fornito nel corso della storia spunti per riflessioni di ogni tipo e per i riadattamenti letterari, teatrali e cinematografici più vari; a partire da quello che è diventato nell’epoca del Romanticismo tòpos dell’eroe tormentato dalle circostanze esterne, ma anche e soprattutto da quelle interiori, fino alla rivisitazione, assai originale, delle tematiche fondamentali della tragedia shakespeariana nel film d’animazione di Roger Aller e Rob Minkoff, The Lion King.


Plausibilmente composta tra il 1598 e il 1602, oltre ad offrire numerosi riferimenti e spaccati della cultura, in particolar modo teatrale, dell’epoca, Amleto presenta una trama e delle caratteristiche assai innovative, con lo sguardo rivolto verso la modernità. Nella composizione del dramma, Shakespeare utilizza fonti medievali, in particolare le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, contaminandole con una rivisitazione originale della cosiddetta “tragedia di vendetta” di stampo senechiano, che ha a sua volta il proprio capostipite nell’Orestea di Eschilo, celebre drammaturgo ateniese del V secolo a.C.


Amleto è, a tutti gli effetti, una tragedia di vendetta, poiché tutta l’azione ruota intorno all’assassinio perpetrato ai danni del re di Danimarca Amleto, da parte di suo fratello Claudio; un crimine orrendo, che il principe Amleto, figlio della vittima, è incaricato da parte dello spettro del padre stesso, di vendicare. Una particolarità però, distingue quest’opera dalle precedenti revenge tragedies, sia elisabettiane sia risalenti ad epoche precedenti: la vendetta sembra non attuarsi mai. Questa caratteristica, oltre ad aver condotto l’opera a divenire il dramma dell’inazione per antonomasia, si riflette sulla trama principale, che viene costantemente rallentata, interrotta e ostacolata da episodi e personaggi collaterali, nonché dai ripensamenti e dalle riflessioni del protagonista, che sente la necessità di chiarire qualsiasi tipo di dubbio, tra i quali in primis spicca la perplessità sulla vera identità del fantasma del padre, entità che lo ha incaricato di smascherare Claudio e vendicarsi per averlo avvelenato, per averne sposato la moglie, la regina Gertrude, dopo pochissimo tempo ed essersi in tal modo appropriato del trono danese. Il fatto che la madre abbia preso tale decisione ha sfiduciato il giovane principe su tutto il mondo femminile, lo ha convinto dell’inesistenza dell’amore puro e vero, cosa che andrà - fatalmente - a ripercuotersi sulla sua relazione con la bella Ofelia, figlia di Polonio, consigliere del re. Non solo: il repentino matrimonio, peraltro ai limiti dell’incestuoso, assume una rilevanza tanto negativa dal punto di vista del principe, da convincerlo che nella realtà nulla è come davvero sembra, ma che ci siano moltissime “[…] azioni che l’uomo può contraffare”, mentre esistono sensazioni recondite che superano qualsiasi tipo di possibilità di venire espresse esteriormente; una tale opinione, esposta nella seconda scena dell’Atto primo, proprio davanti a Claudio, appare incredibilmente emblematica dato che il nuovo sovrano è vestito a lutto per la morte del fratello, che egli stesso ha assassinato, ed esprime il suo cordoglio con parole artefatte e luoghi comuni: un’apparenza agli antipodi di ciò che egli cela dentro di sé. Un’argomentazione di questo genere dà modo di evidenziare la centralità che la parola ha nell’ambito del dramma, sia per la sua facoltà di celare sensazioni e verità inesprimibili, sia per l’efficienza che ha, attraverso, ad esempio, la riflessione e la speculazione, nel rimandare un’azione che non si è pronti a mettere in pratica. Il dramma shakespeariano offre una varietà estrema di linguaggi e lessico, i quali diventano caratteristiche peculiari e identificative di numerosi personaggi: il linguaggio ipocrita e costruito di Claudio, quello articolato, iperbolico e magniloquente di Polonio e infine il modo di esprimersi di Amleto, talvolta ironico, disincantato e volto a smascherare la doppiezza e la superficialità di chi gli sta di fronte, altre volte ricco di figure retoriche quali l’endiadi, che insieme ai numerosi monologhi e soliloqui hanno la potenzialità di rinviare le azioni che il principe è chiamato a portare a compimento.


In un clima dove la realtà non è quella che appare ed è celata dietro giochi di parole, inganni e sotterfugi, il modo per raggiungerla non può che essere paradossale. “The play’s the thing”, è l’affermazione del principe nell’Atto secondo, la quale rende l’Amleto una delle opere metateatrali per eccellenza. Il giovane coglie l’occasione di sfruttare una compagnia di attori girovaghi al fine di mettere in scena al cospetto dell’intera corte danese un dramma che riproponga una vicenda molto simile al crimine compiuto da Claudio, per osservarne la reazione e confermare la veridicità dell’accusa dello spettro di re Amleto. In maniera del tutto sconcertante, Shakespeare si muove in direzione contraria alla tradizione platonica, che considera il teatro mera finzione, ponendo la rappresentazione teatrale come unico mezzo foriero di verità, come una tipologia di mimesi delle passioni definita addirittura “mostruosa”, che viene esacerbata al punto da far immedesimare Claudio nel crimine che ha compiuto, farlo alzare di scatto e interrompere lo spettacolo, sciogliendo qualsiasi dubbio.


Altro tema fondamentale dell’opera, che si collega al fatto che nulla è come sembra e al potere ingannatore della parola, è quello della follia. La follia “recitata” di Amleto, che finge di essere pazzo per non destare sospetti e poter agire indisturbato in funzione della vendetta contro lo zio, il quale a sua volta indaga insieme al consigliere Polonio sulle cause che inducono il giovane a comportarsi in modo tale; cause che vengono individuate nell’amore per Ofelia, che ricambia i suoi sentimenti ma è costretta dal padre e dal re, in funzione dell’indagine, a respingere il principe. Tutto ciò costa caro sia a Polonio, ucciso quasi per errore da Amleto mentre origlia la sua conversazione con la madre, sia ad Ofelia, che impazzisce per il dolore e pertanto si lascia morire annegata. Il tema del suicidio, affrontato dal principe in vari punti dell’opera è parte di una riflessione, dovuta a tutte queste circostanze, sul problema dell’identità – sua e del fantasma del padre- sulla bassezza dell’umanità e sul senso dell’esistenza, a biasimare se stesso per la propria malinconia, per tutti i dubbi che lo portano a ritardare l’azione, al proprio senso di inadeguatezza al “lasciarsi agire” dagli altri e all’incapacità di prendere un’iniziativa in maniera determinata. Il riflettere e il mettersi in discussione del protagonista sono caratteristiche assai moderne e “umane”, che giungono al momento culminante nel celeberrimo soliloquio della prima scena dell’Atto Terzo – il cosiddetto “monologo dell’Essere o non essere”. Una scena madre per tutta la storia non solo del teatro, ma della cultura e, a dirla tutta, dell’umanità: spesso in ambito teatrale si dice che l’uomo non è stato più lo stesso dopo Shakespeare, e tale soliloquio è uno degli emblemi di una simile affermazione; insegnato tuttora nelle scuole di recitazione, anche estrapolato dal contesto dell’opera, il “monologo dell’Essere o non essere” assume una valenza universale, poiché, parlando alla prima persona plurale e dunque implicando non soltanto il coinvolgimento del pubblico, ma di tutti gli esseri umani, il principe danese si chiede se sia meglio continuare una vita di disagi e soprusi oppure abbandonarsi al sonno della morte, che potrebbe essere però costellato di sogni e incubi e consistere quindi in una sorta di altra vita “onirica”. Cosa ci sia dopo la morte è sconosciuto e, pertanto, la paura dell’ignoto costringe i più a continuare a vivere una vita da ignavi, nell’attesa che qualcuno agisca per loro o a lasciarsi trascinare dall’azione altrui. È esattamente quello che fa Amleto nell’ultima scena della tragedia. Sfidato a duello da Laerte, fratello di Ofelia che, incitato da Claudio, vuole vendicare la morte del padre Polonio e della sorella. Il fioretto di Laerte, avvelenato da Claudio, uccide entrambi i giovani per una zuffa durante la contesa. Nello stesso inganno cade la regina Gertrude, che beve dalla coppa destinata al principe, precedentemente avvelenata da Claudio. Soltanto in punto di morte Amleto riesce a infliggere il colpo mortale a Claudio, e a costringerlo a bere dal bicchiere avvelenato. La vendetta pensata e procrastinata nel corso di tutta l’opera avviene solamente nel momento estremo, al compimento della quale Amleto viene trascinato da Laerte che a sua volta desidera una rivalsa. I due giovani diventano l’uno il “doppio” dell’altro, affratellati dal fatto di essere vendicatori e vittime allo stesso tempo. Anche in extremis, Amleto non segue la propria iniziativa, ma si lascia agire, dimostrando, coerentemente al proprio personaggio in tutta l’opera la propria umanità, modernità, e, volendo, il proprio tormento “romantico”.


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