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Fascismo: Retorica e Nostalgia


“L’angoscia per se stessi fa risvegliare inconsciamente una nostalgia del nemico. Anche nella sua forma immaginaria, il nemico fornisce rapidamente un’identità”

Byung-Chul Han, L’espulsione dell’altro, 2017


Il dibattito attorno al tema del fascismo sembra essersi recentemente riacceso – se mai davvero si fosse spento. Vuoi perché forse il Belpaese non ha mai davvero digerito fasi non altrettanto belle del proprio passato, vuoi perché periodicamente risulta essere un facile argomento a cui ricorrere per delegittimare i propri avversari politici, di fascismo si parla quotidianamente. E probabilmente sono simultaneamente verificabili entrambe le ipotesi, giacché non si escludono vicendevolmente: in modo confuso e disorganico, di fascismo si parla quotidianamente.

Tuttavia, nessuna di queste posizioni sul fascismo risulta essere l’argomento sostenuto dal nostro discorso: ambedue sono infatti l’espressione di rispettive illusioni tra le quali il fascismo si insinua, si districa in incognito; in altre parole, tramite queste convinzioni, il fascismo ci abbindola. L’autoespiazione, ora tramite contrasto col passato, ora coll’altro, possono renderci ciechi.

La prima illusione risulta appunto dall’identificare il fascismo esclusivamente come un evento storico unico ed irreplicabile: il fascismo è quello del Ventennio, tutto ciò che si discosta formalmente o sostanzialmente da esso non può essere fascismo.

La seconda illusione scaturisce invece dall’attribuzione delle caratteristiche proprie del fascismo ad uno, ed un solo, schieramento alla volta: se l’altro è fascista ed io sono in disaccordo con lui, io non posso essere fascista.

Entrambe giacciono sul rassicurante impianto logico del principio di identità e non contraddizione (A è A e non può essere non-A); entrambe sono fallaci poiché falliscono nell’identificare efficacemente l’oggetto di interesse: ad una concettualizzazione accurata del fascismo e della sua natura, se ne sostituisce una strumentale all’autoassoluzione. L’oggetto appare dunque mobile e mutevole, dai contorni confusi.

Questo perché la stessa sostanza del fascismo è in effetti confusa: a differenza di altri autoritarismi, quali il nazismo e lo stalinismo, non è possibile individuare con esattezza i limiti del pensiero fascista, dell’arte fascista, dell’educazione fascista o della dottrina sociale ed economica fascista.

La categoria dei regimi fascisti, nemmeno lontanamente riducibile all’esperienza del Ventennio italiano, abbraccia le situazioni più eterogenee nel tempo e nello spazio. E anche rivolgendo lo sguardo alla sola situazione italiana, non si potrebbe che constatare quanto la natura del fenomeno, in sole due decadi, sia stata estremamente mutevole, dalla radice socialista al consolidamento come regime filocattolico, monarchico e capitalista.

Se è dunque vero che debba essere l’oggetto a definire il metodo e non viceversa, ricercare una definizione sostanziale e contenutistica del fascismo – ovvero capace di individuarne esaustivamente la dottrina e la prassi – non potrà che portare a risultati deludenti, inevitabilmente arbitrari nell’elaborazione e tendenziosi nell’utilizzo. Le due comode illusioni autoespiatorie citate di sopra ne sono un chiaro e quotidiano esempio.

Diversamente, la caratteristica fondamentale del fascismo sembra essere proprio la sua mutevolezza, la sua capacità di far presa nelle situazioni più disparate e in forme sempre nuove.

Il fascismo tende dunque ad assomigliare più ad una strategia flessibile per l’ottenimento del potere, adattabile secondo la situazione del caso, piuttosto che ad un ricettacolo monolitico di politiche da seguire rigorosamente. Nel pensiero di Umberto Eco, il fascismo è inteso, per l’appunto, come una “retorica”, piuttosto che come un corpus coerente di idee: il termine “retorica” ne vuole sottolineare la vocalità, la preponderanza della parola, e del modo della parola, sulla coerenza della prassi. Ne consegue che quella da ricercarsi sia quindi una definizione procedurale, e non sostanziale, di fascismo: il modo dell’azione e non necessariamente il suo oggetto.

In particolare, nel suo celebre articolo Ur-Fascism, Eco evidenzia una serie di costanti della retorica e della procedura fascista. Tra queste, alcune sono estremamente pertinenti in riferimento all’attuale panorama politico italiano: il culto della tradizione, in una sua versione sincretista, non necessariamente coerente a se stessa, di cui è un chiaro esempio l’attuale strumentalizzazione – e stravolgimento – dei valori cristiani di cui la società italiana è ritenuta erede; l’anti-intellettualismo, ovvero un generale disprezzo per la competenza e in particolare per il dissenso dei competenti, atteggiamento che non è esclusiva di nessun colore nello spettro politico italiano; l’equazione “dissenso = tradimento”, di particolare rilevanza in questi ultimi giorni; la necessaria individuazione di un nemico esterno, dell’intruso, di cui avere timore; il reperimento di un solido consenso in una classe media frustrata economicamente, da una situazione di crisi, e politicamente, da partiti non più credibili nel rappresentarla; l’ossessione per il complotto, domestico o internazionale che sia, di modo che il popolo si senta assediato da forze ostili e, di norma, più ricche, meglio equipaggiate; l’utilizzo di una lingua nuova, più semplice, dal vocabolario impoverito e dalla sintassi scarna, che non lasci spazio al pensiero critico. Questi elementi causano dapprima uno spostamento nel dibattito, nelle regole informali del discorso politico e solo in secondo luogo, e non necessariamente, nell’azione istituzionale. La costante di tali dinamiche è l'affermarsi di una narrazione fondata attorno al concetto di "nemico": la sensificazione in virtù di un opposto ostile si rivela dunque la dialettica operativa del fascismo.

E’ importante sottolineare come non vi siano forze politiche totalmente immuni all’adozione, anche solo parziale, di questa retorica, che si guardi alla scena italiana o a quella globale. Nessun attore politico è infatti indifferente – o meglio, può essere insensibile – ad un cambio negli incentivi elettorali. E l’elettorato è cambiato, radicalmente dopo il 2008, quando le prospettive rassicuranti in un futuro più prospero si sono infrante sul muro della crisi finanziaria. Come illustrato dal filosofo Byung-Chul Han in L’espulsione dell’altro, la mancanza di certezze può facilmente tradursi in angoscia e l’angoscia in nostalgia di un nemico attorno al quale ricostruirsi frettolosamente un'identità, una sorta di sicurezza al negativo. Tale desiderio può arrivare a superare l’affezione alla libertà.

Di più, assieme alla nostalgia del nemico, si insinua quella di una guida. Come descritto da Massimo Recalcati, psicoanalista e filosofo, traendo da una ricca tradizione che si estende da Fromm a Nietzsche, la libertà comporta infatti un peso, un costo che in una situazione avversa e di incertezza può rivelarsi insostenibile. Diventa dunque pressante la nostalgia delle catene, del padrone, del duce e sempre più attraente la prospettiva del ritorno alla prigione, purché sia una prigione sicura. Questa – sottolinea Recalcati – è una condizione psicologica insita nella natura stessa dell'uomo e che perciò riguarda tutti. Il fatto di non esserne toccati consegue da una sufficiente tranquillità riguardo le proprie prospettive future, la presenza di uno spazio in cui la propria libertà sia esprimibile, condizione molto spesso di natura economica e non antropologica.

Sarebbe dunque erroneo – sebbene sia la visione più diffusa – pensare al fascismo come ad un cancro, un male che si diffonde per degenerazione a partire da un gruppo di cellule malate. Piuttosto, il fascismo è più efficacemente rappresentato come uno stadio comatoso della società aperta, in cui il dialogo muore e le istituzioni diventano – nelle parole del sociologo Colin Crouch – "gusci vuoti", in cui la sola retorica vincente è quella del nemico: la nostalgia della prigione è un sentimento potenzialmente insito in ogni individuo, uno strato adiposo che ci avvolge, contro cui non esistono difese immunitarie o cure. E la sottrazione al dialogo ed il disprezzo non sembrano conoscere colore politico attualmente: il comandamento Popperiano dell'intolleranza per l'intolleranza viene quotidianamente stravolto – anche, e soprattutto, da parte di chi si dice liberale – fino a giustificare il rifiuto del dialogo con l'altro, ovvero andando a contraddire lo stesso messaggio del teorico della società aperta, fornendo una comoda coperta ideologica ad un facile e dilagante disprezzo, se non disgusto, verso l'alterità politica e sociale. Ci stiamo tutti addormentando nel coma del fascismo.

Chi ha a cuore la libertà, la società aperta, dovrebbe aver riguardo, con la medesima cura e attenzione, sia dei benefici della sua libertà sia dei costi che essa implica, senza mai sottrarsi al dialogo. La libertà ha infatti un prezzo, è costosa da mantenere, al punto che per molti potrebbe diventare sconveniente. E l'unico strumento per sottrarsi alla ragnatela fascista è appunto il dialogo, l'incontro; il rifiuto dell'altro, di contro, per quanto informato, ragionato o sofisticato possa essere, non ne è che una subdola declinazione.

In foto:

Tullio Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939.

Mino Maccari, Mussolini, 1943.


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