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Le storie di ieri e l'attualità della memoria


In occasione della ricorrenza della Giornata della Memoria può essere utile, o quantomeno interessante, soffermarsi su una realtà più piccola e per certi versi poco conosciuta della grande tragedia dell’Olocausto. Si parla del campo di concentramento di Bolzano, attivato dalla sezione delle SS di Verona a partire dalla primavera del 1944 fino al 3 maggio 1945, giorno in cui i gestori del Lager decidono di darsi vigliaccamente alla fuga, non prima di aver distrutto documenti e prove dei crimini compiuti in questo teatro di morte. I detenuti avvicendatisi nel campo furono più di undicimila, la maggior parte dei quali prigionieri politici, partigiani, scioperanti o anche solamente sospettati di avversione al regime nazifascista. Ci furono tuttavia anche numerosi deportati per motivi razziali, tra i quali soprattutto donne militanti antifasciste, zingare e bambini ebrei separati dai familiari precedentemente condotti nei campi di sterminio. Il Lager di Bolzano, oltre ad assolvere alla funzione di organizzare compiti e lavori forzati, in vera e propria schiavitù, per i suoi detenuti, è stato anche un campo di transito, ovvero punto di partenza del trasferimento dei deportati nei campi di sterminio d’Oltralpe. Si stimano essere stati organizzati, in soli dieci mesi di attività, circa tredici convogli, per un totale di oltre 3500 deportati, verso le ben note mete, senza ritorno, di Mauthausen, Dachau, Auschwitz, Ravensbrück e Flossenbürg. Una figura tristemente conosciuta nel lager è quella di uno dei maggiori responsabili delle atrocità commesse e per questo motivo definito “il boia di Bolzano”. Si tratta dell’SS ucraino Michael Seifert, detto “Misha”, macchiatosi di molteplici e atroci delitti e torture nei confronti dei prigionieri nelle celle del campo. Egidio Meneghetti, intellettuale, docente e scienziato veronese, ricorda due cruenti omicidi compiuti dal boia nella sua poesia “Bortolo e l’ebreeta”, nella quale parla di un giovane detenuto e di una piccola ebrea, l’uno massacrato e ucciso squarciandogli il ventre, forse per aver rubato un pezzo di pane; la seconda seviziata, percossa e lasciata morire, per il semplice fatto di essere ebrea, di essere “diversa”. Tra le sue decine e decine di vittime, si ricorda anche il caso di una madre ebrea e di sua figlia, torturate per ore ed infine strangolate.

Nonostante il sadismo e la spietata crudeltà dei gestori del campo, esistono numerose testimonianze di episodi di resistenza da parte dei detenuti, incoraggiati anche dal gran numero di donne e uomini che, dall’esterno del campo, organizzavano, rischiando la loro stessa vita, vere e proprie azioni di assistenza ai prigionieri, permettendo anche loro di ricevere notizie e viveri da parte delle loro famiglie. Emblematica di questa resistenza al regime, è la commovente storia di Pietro “Pierino” Rosso, nato nella cittadina piemontese di Canelli il primo novembre del 1915. Egli trascorre una giovinezza all’insegna dell’opposizione al regime fascista. Vorrebbe anche contribuire alla formazione di una banda partigiana, ma il piano fallisce in seguito alla defezione, e forse al tradimento, di un compagno. Il 4 dicembre 1944, Pietro, come ogni giorno, sta tornando a casa dal lavoro, dove lo aspettano la moglie Teresa e Anna, la sua bambina nata da pochi mesi; improvvisamente sente vibrare nell'aria una parola secca, tremenda: “Altolà!” Pietro non pensa neanche lontanamente a fuggire, poiché a gridare è stato un milite nazifascista che ora gli è alle spalle e potrebbe vendicarsi immediatamente sulla sua famiglia: Pietro si sente mancare il respiro mentre alza le mani e viene catturato, gettato su un furgone e portato via, ammassato insieme ad altri uomini, donne e bambini, spaventati tanto quanto lo è lui. Pietro racconta un viaggio interminabile, si sofferma a parlare delle sofferenze provate e dei lamenti angoscianti dei compagni che non conoscono, ma forse immaginano, la sorte che li attende. Dopo un tempo lunghissimo, incalcolabile, interrotto soltanto da una sosta durante la quale i prigionieri vengono perquisiti e picchiati, il convoglio si ferma ed essi vengono fatti scendere: “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”) è la beffarda, crudele e menzognera scritta sul cancello di un tetro e sinistro cortile che balza immediatamente allo sguardo e che colpisce con la violenza di una sentenza di morte. Più avanti, legato al cancello, un uomo piccolo, magro, ferito, si lamenta, piange, sviene ripetutamente e viene rianimato ogni volta a colpi di cinghia da parte di una guardia carceraria; sembra quasi un avvertimento per i nuovi detenuti: quello è il destino di chi prova a ribellarsi. Poi, l'ingresso nel campo, l'appello; il ricordo diventa sempre più nitido: «Mi hanno dato un triangolo di stoffa rosso, da prigioniero politico» rammenta Pierino; «e poi un numero, “7282”, ma in tedesco io non lo so pronunziare.» I prigionieri apprendono in seguito di trovarsi nel campo di prigionia e smistamento di Bolzano, da cui tanti di loro devono presto partire, sui convogli destinati a quei luoghi dei quali, talvolta, si sentiva parlare, e da cui era quasi del tutto impossibile tornare: Dachau, Mauthausen, Auschwitz. Il numero dei compagni di prigionia si assottiglia giorno dopo giorno, fino al momento in cui alcune guardie conducono Pietro e altri detenuti a Vipiteno, costringendoli a svolgere diversi lavori, dei quali il più massacrante è lo sminamento delle strade, che vengono bombardate continuamente, «tutti i giorni, dalla mattina presto, e non se ne poteva più, il frastuono faceva impazzire.» Passano i mesi, il cibo è poco è la sofferenza è immensa; non si sa quando, e se, tutto questo avrà mai fine. Con il passare dei giorni, Pietro percepisce un'atmosfera diversa, c'è aria di smobilitazione imminente; che cosa stia accadendo non può dirlo con sicurezza, ma almeno di una cosa è certo: non può assolutamente permettersi di essere deportato in Germania, non può abbandonare la sua famiglia: «Sentivo la responsabilità che avevo verso mia figlia e mia moglie, non potevo lasciarle sole ancora a lungo.» Ed è così che gli balena in mente l'unica, disperata soluzione possibile: evadere. Pazientemente, Pietro riesce a convincere un detenuto più giovane e timoroso a tentare la fuga insieme a lui e, armandosi di un coraggio che mai fino a quel momento avrebbe pensato di poter trovare, ruba una pagnotta e, durante la notte, riesce ad eludere la sorveglianza e a correre via. È il 20 aprile 1945. Ricorda una fuga interminabile e quel senso di oppressione dovuto alla costante angoscia e al terrore di essere scoperto e immediatamente fucilato. Il giorno dopo, il suo nome nel registro del lager viene marchiato dal perentorio timbro: “evaso”. Dopo alcuni giorni, i due prigionieri arrivano a Trento, dove incontrano una donna, che avendo compreso grazie al loro aspetto la provenienza dei due giovani, li rassicura: la città è stata liberata, bisogna soltanto aspettare che vengano organizzati dei trasporti per ricondurre i deportati, radunati in un centro della Croce Rossa, nelle rispettive città. Pietro non è in grado di aspettare ulteriormente: desidera soltanto tornare a casa, e non certo grazie all’aiuto di chiunque possa avere a che fare con i militari, dei quali, afferma, non vuole più sentir parlare. È così che Pietro si incammina da solo verso la sua Canelli, dove giunge verso la metà di maggio, dopo aver percorso numerosissimi chilometri a piedi, lottando contro la fame e il terrore di poter essere scoperto e ricondotto verso quel luogo di morte.

La storia “a lieto fine” di Pierino, oltre a fornire un monito, sempre attualizzabile, alla rivendicazione della libertà individuale e dei diritti umani, è uno dei tanti episodi di ribellione avvenuti a Bolzano, che troppo spesso, invece, si sono rivelati fatali. Sempre più frequentemente si sente dire che celebrare la Giornata della Memoria è inattuale e inutile, proprio perché l’umanità continua imperterrita a discriminare in vari modi quelle “diversità” che spaventano tanto. Spesso e volentieri si tende a non sentirsi coinvolti, a pensare che quello dell’Olocausto sia stato un fenomeno tremendo, ma ormai passato, che non abbia ripercussioni sulle nuove generazioni. Esso è un fenomeno sentito come distante e concluso da una Resistenza considerata fine a se stessa, da ricordare una volta all’anno con svariate citazioni, ma senza sentire la necessità di informarsi in maniera approfondita. Questo è uno dei motivi per cui la Storia si sta ripetendo, in maniera, forse, ancora più drammatica. La testimonianza di Pietro è stata raccontata in quanto storia di un uomo comune, la cui unica colpa era il non collaborazionismo ad un regime politico che egli semplicemente non condivideva. Un uomo comune, che tuttavia ha avuto il coraggio di opporsi e dire di no, di riscattare la propria libertà individuale rischiando la morte o l’incolumità. Egli usava sempre ripetere ai suoi nipoti, tra i quali la sottoscritta: «Siate cittadini attenti ed informati, non pensate mai che quello che accade non vi riguardi.» Per prendere coscienza di ciò che la paura del “diverso” può ancora causare, oggi più che mai è necessario celebrare questa giornata, leggendo le testimonianze di coloro che la deportazione e la discriminazione razziale l’hanno, già in passato, subita sulla propria pelle.

In foto:

Aldo Carpi, Il Deportato

Felix Nussbaum, Angst


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