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"Una vita in vacanza, un Baglioni che dabba": Festival di Sanremo 2019, PRIMA SERATA

Milano, 5 febbraio 2019, 20:25.

Ho appena finito di cenare, mi sono steso sul letto e ho già adocchiato un libro dall'aria interessante sulla mensola: si prospetta una serata tranquilla. Improvvisamente, un rumore. Alzo lo sguardo e per poco non mi viene un infarto: c'è qualcuno seduto alla scrivania, mi sta fissando. "Chi sei?", esclamo. "Non mi riconosci? Io sono Pippo Baudo o, meglio, il suo spirito: sono il Fantasma del Sanremo Passato." "Pippo Baudo... il fantasma... Sanremo... COSA?"

"Sono venuto a dirti che devi recensire il Festival di Sanremo." Esplodo in una grassa risata: "No, ho smesso con queste cose, quattro anni di fila mi sembrano abbastanza..." "Ma quest'anno non dovrai farlo sui social, potrai scrivere per Xanthippe, un vero giornale online!" "Mh, non male... però no, Pippo, non tentarmi! Sono stufo di passare le notti in bianco, scrivendo articoli sul Festival! Voglio leggere il mio libro, voglio dormire, voglio..." Ma non riesco a finire la frase: Pippo mi zittisce con un rapido gesto della mano e il suo ectoplasmico sopracciglio si inarca. Con fare sornione, sussurra: "Non lo sai che quest'anno in gara c'è Achille Lauro, il trapper?" "La trap? A Sanremo? Ma..." "E c'è anche Nino D'Angelo."

"Ma come Nino D'Angelo? Achille Lauro e Nino D'Angelo? Va bene, va bene, mi hai convinto, ma promettimi che è per una sola serata e poi basta." "Illuso..." "Hai detto qualcosa?" "Ho detto: 'va bene'!" "Okay, ti prendo in parola... Quindi si comincia?"

"Si comincia." Sì, si comincia. La 69esima edizione del Festival di Sanremo inizia qui.

La prima serata del Festival si apre con i conduttori Claudio Baglioni, Claudio Bisio e Virginia Raffaele intenti a cantare in cima alla consueta – ma stranamente piccola – scala, circondati da un tripudio di orchestra, ballerini e applausi. Una partenza col botto, come si suol dire, ma presto i tre rimangono soli sul palco e subito iniziano i soliti siparietti scritti benino, ma recitati con la verve tipica di un museo delle cere dopo l'orario di chiusura. Per fortuna le canzoni sono tante e si inizia subito con la gara. "Per fortuna". Francesco Renga, Aspetto che torni: In teoria nella strofa ricorda un po' Dalla, nel ritornello un po' i Negramaro. In pratica potrei sbagliarmi di grosso, perché il volume della voce è bassissimo e a malapena riesco a cogliere qualche nota.

"Pippo, puoi farci qualcosa?" "E che c'entro io? Ho molti difetti, ma non sono un fonico." Va beh.

Nell'insieme è un pezzo abbastanza di classe, ma soffre della maledizione suprema del Festival: le canzoni si somigliano un po' tutte e la banalità è sempre in agguato dietro a ogni spartito.

Nino D'Angelo e Livio Cori, Un'altra luce: È in italiano? È in napoletano? Il problema ai volumi persiste e si capisce ben poco, ma ogni tanto le voci dei due concorrenti riescono ad emergere dalla coltre orchestrale: quello che perviene è un miscuglio di biascichii sofferenti non meglio identificati.

Finché non sarà possibile giudicare il testo, lasceremo loro il beneficio del dubbio.

Intanto, su Twitter una ragazza scrive: "Ma sono io che ho problemi o la voce è troppo troppo bassa rispetto alla base che è altissima?". La base. Una delle migliori orchestre sinfoniche del Paese, affiancata da alcuni dei più grandi musicisti del panorama pop italiano, per lo spettatore medio è "la base". Ogni volta che viene detta una cosa del genere, un musicista nel mondo muore.

Nek, Mi farò trovare pronto:

Nek ha una bella voce, se la cava col basso ed è pure bello. Da giovane suonava in giro i successi di Sting tanto bene, che quasi lo si sarebbe potuto scambiare per l'originale. Perché allora da anni si ostina a portare a Sanremo quello che sembra essere sempre lo stesso pezzo? Per la maledizione di cui parlavamo prima? Forse, ma è incredibile come un artista del suo calibro riesca sempre, inevitabilmente a plagiare se stesso.

L'unica novità di Mi farò trovare pronto è l'arrangiamento vagamente elettronico. In pratica è il solito brano, però remix.

The Zen Circus, L'amore è una dittatura:

HANNO ALZATO LE VOCI, ORA SI SENTE!

Va bene, mi ricompongo.

Gli Zen Circus sono cazzuti come al loro solito e l'arrangiamento del pezzo ricorda vagamente le composizioni di Danny Elfman per i film di Tim Burton, però con le chitarre elettriche. Forse ci si aspetterebbe di più dalla band di Andate tutti affanculo, ma L'amore è una dittatura è già abbastanza per la media del Festival di Sanremo.

Quindi ci accontentiamo, con la consapevolezza che forse il rock non è morto, ma che ha decisamente bisogno di rimettersi un po' in forma.

Il Volo, Musica che resta: "Pippo, no." "Cosa?" "Il Volo no. Non mi avevi detto che c'era anche Il Volo."

"Ormai hai iniziato, non puoi lasciare il lavoro a metà..." "Sei sleale, fantasma, lo sai?" "Lo so."

Dunque, tutto d'un fiato. Il Volo festeggia dieci anni di carriera e si riconferma ancora una volta per quello che è: l'Italia come la vedono gli americani, che è l'Italia peggiore, quella della pizza, del mandolino e – a quanto pare – dei tenori mediocri.

Tempo fa paragonai il gruppo ai Teletubbies, ma questi sono così vecchi dentro, che il programma più adatto a loro potrebbe essere Il Segreto. La loro canzone di sicuro ne sarebbe un'ottima sigla.

Loredana Bertè, Cosa ti aspetti da me: Loredana è una grande interprete, un'icona della sua generazione, un'artista che negli anni '70 e '80 presentò al pubblico una serie innumerabile di successi, molti dei quali scritti da Ivano Fossati. Sì, però allo stesso tempo è anche una la cui carriera sembrava finita nei primi anni 2000, quando partecipò a Music Farm (il dimenticabile e dimenticato cimitero degli elefanti della musica), e che poi si reinventò tingendosi i capelli di blu e facendo featuring con i Boomdabash.

Cosa ti aspetti da me cerca di coniugare queste due nature, ma il risultato è un pezzo banalotto, condito con qualche problema di intonazione.

Tuttavia, piuttosto che infierire su un personaggio che si presta fin troppo bene allo scherno, conviene notare che questa cantante quasi settantenne ha un'energia invidiabile e una voce che, per quanto sbiadita, ricorda ancora quello che è stato: uno dei migliori timbri della storia della musica italiana.

OSPITE: Andrea Bocelli

Bocelli non mi piace, non mi è mai piaciuto, mi sa di una camomilla che prendi per dormire e che invece ti lascia sveglio a guardare il soffitto. Però vedo il fantasma di Pippo Baudo commuoversi e penso a mio nonno, a casa sua, sveglio solo per aspettare quel paio di canzoni vagamente liriche che gli ricordano "i suoi tempi", in mezzo a tutte le sonorità elettroniche e hip hop che non può capire.

Mi ritrovo a sorridere.

(Il "passaggio del testimone" con Bocelli che dà al figlio la giacca che indossò venticinque anni fa al Festival è un po' trash, ma shhh, non voglio rovinare il momento).

Daniele Silvestri, Argentovivo (con Rancore):

Sì. Sì. Sì.

Il ritmo è incalzante, il testo impegnato, la band e l'orchestra si fondono perfettamente e a tratti emergono sonorità elettroniche. Daniele, più che cantare, parla, ma senza cadere in un rapping che poco si addirebbe al suo stile; il rap è quindi lasciato a Rancore, a completamento di un pezzo estremamente eclettico ed originale, che riesce nell'ardua impresa di fondere così tanti generi senza risultare in alcun modo sovrabbondante o ridicolo.

Forse non un capolavoro destinato a durare nel tempo, ma senza dubbio uno di quei brani che dimostrano come guardare Sanremo non sia sempre una perdita di tempo. Anzi.

Federica Carta e Shade, Senza farlo apposta:

"Pippo, ma ci sono Fedez e la Michielin?" "No, guarda bene, sono Shade e Federica Carta."

"Ah, la stessa cosa, insomma, ma la versione del Lidl." "Dai, non essere così cattivo!" "Pippo, Shade è uno youtuber." "'Azz..."

Ultimo, I tuoi particolari:

Ultimo – che ha vinto Sanremo Giovani lo scorso anno – ha l'aria di un trapper e fa pezzi alla Marco Carta.

Sembra un bravo ragazzo, ma la speranza è che quest'anno il suo nome d'arte si riveli un nomen omen, facendolo scivolare inosservato verso il fondo della classifica. Va bene tutto, ma – come cantavano gli Afterhours ai tempi buoni – "se c'è una cosa che è immorale, è la banalità".

OSPITE: Pierfrancesco Favino

Per fare un mash-up di Queen, Mary Poppins e Sister Act ci vogliono le palle e le palle più grandi qui ce l'ha l'orchestra, che salta da un brano all'altro come se niente fosse, ricordandoci che i musicisti – quelli veri – esistono ancora.

Paola Turci, L'ultimo ostacolo:

Paola è sempre uguale. Letteralmente: è sempre uguale.

Ha sempre lo stesso aspetto, gli stessi vestiti e, cosa più importante, canta sempre la stessa canzone. Solo che non è una grande canzone, infatti la ascolto ad ogni edizione e ancora non mi è rimasta impressa.

Motta, Dov'è l'Italia: Motta è bravo, tanto bravo da aver vinto la Targa Tenco per il miglior album del 2018. Ha anche uno stile invidiabile: stasera si presenta vestito praticamente da ballerino di flamenco, senza sembrare affatto un ballerino di flamenco. Il pezzo non tira moltissimo, ma è un pezzo che di certo merita un secondo ascolto: solo a quel punto potremo determinare se conveniva invece fermarsi al primo.

Boomdabash, Per un milione:

"Pippo, non so se ridere o piangere." "Esagerato! Perchè?" "Quello con la cresta sembra Checco Zalone che imita 'quello con la cresta dei Boomdabash', il testo dice 'Perché io non ti cambierei nemmeno per un milione' e ti ricordo che questi sono quelli che hanno cannato di brutto il tributo ad Aretha Franklin con Giusy Ferreri l'estate scorsa... Pippo, perché mi guardi così?" "Perché non so se ridere o piangere."

Patty Pravo e Briga, Un po' come la vita:

La mutazione di Patty in alieno è ormai quasi completa, ma la sua resta una delle voci più espressive e di classe del ventesimo secolo. Briga è un cantante così così, ma, quando rappa, Patty inizia istintivamente a ballare, creando in un attimo un ponte solidissimo tra le loro generazioni.

Il risultato non è eccelso, ma Patty sul palco si diverte come una ragazzina e quindi, forse, la musica anche questa volta ha raggiunto il suo scopo.

Simone Cristicchi, Abbi cura di me:

Tutte uguali, aaaaaaaah! Tutte uguali!

OSPITE: Giorgia

Giorgia è sempre bravissima, ma negli ultimi anni la sua carriera ha subito una costante curva discendente. Non mollare, Giorgia, abbiamo ancora bisogno di una voce come la tua.

Achille Lauro, Rolls Royce: Dopo aver atteso con un misto di curiosità e timore l'arrivo della trap al Festival di Sanremo, cosa mi trovo davanti? Un trapper con la faccia tatuata, vestito come un mafioso, che stona su un rock 'n' roll alla Celentano.

Alla fine c'è anche dell'autotune e io non so più cosa sto guardando: sto forse impazzendo? Poi mi tranquillizzo, ci rifletto su un secondo: questa canzone mi ricorda qualcosa. Sì, ricorda vagamente un pezzo della colonna sonora di In viaggio con Pippo. Solo che la colonna sonora di In viaggio con Pippo è molto bella.

Arisa, Mi sento bene: Si prosegue sul filone "musical Disney" inaugurato da Lauro: Arisa è la fata madrina di Cenerentola che ha deciso di meritare un film tutto suo, dove cantare a squarciagola, senza che nessuno possa fermarla. Solo che è tipo un film direct to video e si sa che i direct to video non li guarda più nessuno.

Negrita, I ragazzi stanno bene:

Dopo un disco "meh" come quello dello scorso anno, i Negrita avevano bisogno di un capolavoro per rilanciarsi.

Non so se il capolavoro sia arrivato, ma sono pur sempre i Negrita: anche il loro "meh" solleverebbe di qualche tacca il livello del Festival, quindi va benissimo così.

OSPITE: Claudio Santamaria

Il medley-omaggio al Quartetto Cetra a tratti fa un po' ridere, ma – come per il mash-up con Favino – va elogiato il livello di esecuzione di una performance tutt'altro che semplice.

Ghemon, Rose viola:

Ghemon è uno dei migliori artisti della nostra generazione. Nasce come rapper, ma rapper colto, sulla scia di quell'hip hop americano che ha rielaborato il funk e il soul; si evolve poi come cantante, come cantautore, collezionando una serie di dischi diversissimi tra loro, ma egualmente interessanti. Forse Rose viola non è uno dei suoi punti più alti, ma è una bella canzone ed è l'unica finora che rimane impressa in testa e si lascia canticchiare a memoria già dopo il primo ascolto, risultato che una volta veniva ricercato appositamente dai compositori del Festival e la cui importanza sembra oggi del tutto ignorata. Inoltre, il successo di Ghemon è il successo di tutti, perché dimostra che un bravo ragazzo con la voglia di impegnarsi può ancora arrivare in alto, che un po' di meritocrazia nella musica esiste ancora.

Einar, Parole nuove:

Un ragazzo a inizio carriera dall'aria pulita e gentile, purtroppo la maledizione del Festival non risparmia neppure lui: la sua canzone non è tremenda, ma è la solita ballad romantica sanremese di cui non abbiamo bisogno e che è destinata ad essere trascinata dalle altre nel grande mare della dimenticanza.

Ex-Otago, Solo una canzone:

Idem come sopra, ed è un vero peccato, perché gli Ex-Otago finora hanno difeso un indie pop un po' diverso dal solito, mentre con Solo una canzone la componente più autenticamente indie lascia il passo a un pop che fa temere una svolta commerciale totale, come già avvenuto per i Thegiornalisti. "Davvero si scrive Thegiornalisti?" "Pippo, vorrei tanto fosse una svista dovuta all'ora tarda, ma si scrive proprio così. Adesso lasciami scrivere, per favore." "Quest'anno eri restio ad iniziare, ma adesso ci stai riprendendo gusto, eh?" "No, Pippo, è che o scrivo o mi addormento." "Ah."

Anna Tatangelo, Le nostre anime di notte: "Va bene, mi addormento."

"Dai, di' almeno qualcosa!" "Vediamo... beh, Anna è sempre una bella gnocca." "Non puoi scrivere queste cose su un giornale! Non hai proprio niente da dire sulla canzone?" "La canzone, mh... beh, Anna è sempre una bella gnocca!"

Irama, La ragazza con il cuore di latta:

È ufficiale: aprire le porte alle nuove generazioni e ai nuovi generi musicali non ringiovanisce il Festival, invecchia le nuove generazioni e uniforma i nuovi generi musicali. E pensare che su Wikipedia Irama è catalogato come "alternative hip hop".

Comunque il coro in stile africano di questo pezzo è bellino: in effetti Il Re Leone mancava all'appello dei classici Disney rivisitati stasera.

Enrico Nigiotti, Nonno Hollywood:

Un piccolo barlume di speranza nella tradizione della "solita ballad amorosa sanremese" di cui sopra: questo pezzo non si distingue molto per l'arrangiamento, ma il testo – che confronta la nostra cultura con quella del secolo scorso – e la scelta del nonno come interlocutore ideale – invece della solita dedica al femminile – lo discostano di qualche centimetro dall'indistinta massa melensa da cui è attorniato.

Mahmood, Soldi: L'ultimo brano della serata è anche il primo genuinamente hip hop. Orecchiabile, dal testo non scontato, presentato con una buona interpretazione e un bel timbro, non si distingue particolarmente, ma – come si dice in gergo – "fa il suo".

"Va bene, Pippo, io ho finito. È stato carino alla fine, in fondo lo faccio sempre volentieri. Magari l'anno prossimo potrei pensare di..." "No." "No?" "No, tu non hai finito. Io ho finito." "Tu hai finito?" "Sì, giovane Padawan..." "Giovane Padawan? Pippo, ho capito che sembri un ologramma di Star Wars, ma non ti sembra di esagerare?" "Non interrompermi, giovane Padawan. Il mio compito, in quanto Fantasma del Sanremo Passato, era quello di ricondurti sulla retta via e di distoglierti dal tuo intento di abbandonare le recensioni del Festival. Il mio obiettivo è raggiunto, ma non il tuo: tu dovrai portare a termine questa serie di articoli, tu dovrai recensire l'intero Festival." Senza aggiungere altro, senza darmi il tempo di controbattere, il fantasma di Pippo Baudo svanisce nel nulla, lasciandomi con un lavoro da continuare e, in qualche modo, con la forza per riuscirci. Però ventiquattro concorrenti la stessa sera sono troppi.

E Claudio Baglioni che fa la dab nel 2019 fa pensare che il brano de Lo Stato Sociale dello scorso anno vada riscritto: "Una vita in vacanza, un Baglioni che dabba".

E io adesso vado a dormire. A domani!

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