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Essere e Momento: l'arte come riscoperta del tempo perduto


Sabato 23 e domenica 24 marzo si terranno le giornate FAI di Primavera, "manifestazione nazionale dedicata alla riscoperta del patrimonio", come si legge sul sito dell'organizzazione.

In questo contesto, chiedersi quale sia il significato dell'arte nella società contemporanea pare fuori luogo, se non sacrilego. L'arte è intoccabile: se in una mostra rimaniamo un po' interdetti di fronte alla pittura metafisica di De Chirico, sbirciamo di soppiatto alla didascalia e facciamo spallucce, ma il timore reverenziale che emana il concetto astratto di capolavoro ci tiene lontani da un'autentica riflessione.

Ma le Giornate del FAI ci invitano a riscoprire: non solo le bellezze del nostro Paese, ma anche e soprattutto il valore dell'esperienza artistica.

L'ho capito a fondo spostandomi dal suolo italico: la folgorazione è avvenuta precisamente ad Amsterdam, al Rijksmuseum, di fronte a "La Lattaia", dipinto del 1658 di Jan Vermeer.

Che cosa mi ha colpita a tal punto di questo quadro? Ci troviamo di fronte a una scena di banale quotidianità, una donna del popolo che versa il latte. Eppure c'è qualcosa di inedito in quelle vesti logore, una discreta preziosità in quegli scarni chiodi che risaltano sulla parete bianca. Ma soprattutto, c'è qualcosa che mi riguarda personalmente in quel recipiente in terracotta, qualcosa che va ben oltre il dolce che sta preparando una popolana del seicento. In quella scodella (è la stessa, ne sono fermamente sicura: ne conosco a memoria ogni sbeccatura) mia nonna preparava il coniglio alla ligure, la domenica, e io, ancora bambina, cercavo di intravederne il contenuto mettendomi in punta di piedi, ché non arrivavo ai fornelli. E a pensarci bene, il pane sulla tavola è proprio quello con il quale si accompagnava il coniglio, il pane di Triora, che si perde in mille briciole dalla consistenza spugnosa, le stesse che il puntinismo di Vermeer rende magistralmente sulla sua tela. Mi prudono le dita dal desiderio di fare biglie di mollica.

Ammirare quest'opera ha fatto affiorare in me un ricordo lontano e rimosso; proprio ciò che accade al protagonista de "À la recherche du temps perdu", il celeberrimo romanzo di Marcel Proust, quando inzuppa una maddalena nel tè e si sente pervaso da un'estasi inspiegabile e inaspettata. Quel biscotto ha risvegliato "qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da grande profondità"; ha strappato all'oblio una colazione d'infanzia, come se, mescolando l'infuso del presente col cucchiaino, sulla superficie del liquido fossero emersi i frammenti di quell'altra maddalena, quella amorevolmente offerta da una vecchia zia, molti anni prima.

Non a caso, Vermeer compare nella monumentale narrazione dello scrittore francese. Il quadro è un altro: si tratta de La veduta di Delft, capolavoro custodito all'Aia, che Proust, fuori di finzione letteraria, definiva "il quadro più bello del mondo". Bergotte, romanziere "commerciale", diremmo oggi, che introduce il narratore alla letteratura, si reca ad ammirarlo in una mostra, nonostante la malattia e le raccomandazioni del dottore. E' alla ricerca di un dettaglio: una piccola ala di muro giallo, decantata per la sua bellezza che "sarebbe bastata a se stessa", anche senza il resto del porto; una volta che questa ha catturato il nostro sguardo, pare le sia costruito attorno. E quando finalmente Bergotte si trova davanti all'opera, comprende la minuta compiutezza di una singola macchia di colore; muore lì davanti, con gli occhi colmi di Delft, perché quella piccola ala di muro giallo bastava, non solo per una tela, ma anche per una vita intera.

Come possono istantanee strappate alla realtà di ogni giorno scombussolare così a fondo il nostro spirito? Da dove traggono il potere di resuscitare momenti o di ucciderci?

Difficile rispondere. Torniamo in Italia e proviamo ad analizzare un'opera il cui impatto emotivo è più facilmente giustificabile: il David di Bernini. Qui l'intento di sconvolgere chi la ammira è manifesto: il Seicento in Italia è dominato dallo sfarzo del Barocco - "E' del poeta il fin la meraviglia", scriveva qualche anno prima Gian Battista Marino – e questa statua potrebbe ben fungere da manifesto programmatico dell'estetica del periodo. Le labbra contratte per lo sforzo, i muscoli guizzanti, le sopracciglia corrucciate, ogni dettaglio ci trasmette un'idea di tensione, come se il liscissimo marmo trattenesse a stento fiotti di energia pulsante. Persino la fionda tesa: siamo ben lontani dalle rassicuranti nature morte olandesi, gli oggetti non sono disposti con cura, ma branditi con fierezza. E' una novità rilevante nell'iconografia dell'episodio biblico: Michelangelo ci aveva presentato l'eroe un momento prima dell'attacco a Golia, Donatello nel pieno trionfo. Nessuno prima di Bernini aveva colto l'azione nel suo acme, nessuno aveva osato conferire alla propria opera un valore così cruciale.

Eppure, a pensarci bene, anche ne La Lattaia osserviamo una scena durante il suo svolgimento: il latte continua, imperterrito, a essere versato davanti ai nostri occhi, come se sgorgasse da una fonte eterna. Siamo di fronte a due visioni radicalmente opposte della temporalità: da una parte l'attimo, estemporaneo, grandioso, che si eleva al di sopra della banalità di ogni giorno; dall'altro la durata, una continuità rassicurante, un riparo dai tumulti del mondo. Quest'ultima costituisce una prospettiva inedita alla vita di sempre: visione fatale per il povero Bergotte, garanzia dell'instancabile bellezza del vivere per la poetessa polacca Wisława Szymborska, che le dedica quattro versi ai quali non si trova nulla da aggiungere:

Finché quella donna del Rijksmuseum

nel silenzio dipinto e in raccoglimento

giorno dopo giorno versa il latte dalla brocca nella scodella

il Mondo non merita la fine del mondo.

Se in Bernini l'illusionismo Barocco pone lo spettatore dal punto di vista di Golia nell'osservare il David e ci trascina nel mezzo di un duello all'ultimo sangue, Vermeer ci presta gli occhi, possiamo immaginare, di un bambino che osserva la sua mamma, mentre lei si dà da fare per preparargli qualcosa di buono. Questo è il compito dell'artista, far emergere di volta in volta una parte diversa di noi e non risparmiarne nessuna: sullo stesso piano, mostruosità e innocenza.

Me lo ha insegnato il placido scorrere del latte in una ciotola; ed è proprio una brocca l'oggetto che porta ad esempio Heidegger, il filosofo dell'essere per eccellenza, per spiegarci il significato delle cose. "La cosa coseggia", scrive ne "Le conferenze di Brema": l'uomo entra il contatto con essa attraverso le azioni che la caratterizzano e solo così è in grado di coglierne il senso più profondo. Manifestandosi in qualità di cosa, una semplice brocca trascende la pura presenza oggettivata di fronte a noi, in quanto espressione dell'essere e delle sue dimensioni: il materiale col quale è stata modellata rimanda alla Terra, il liquido che contiene richiama all'azione del Cielo, troviamo addirittura una possibile metafora di spiritualità nei suoi usi sacri. La storia dell'arte e la storia dell'essere procedono su binari paralleli: storie di allusioni e disvelamenti. Ma mentre farsi strada nel "pensiero pensoso" (sic) heideggeriano può risultare un'impresa ostica, l'opera d'arte non ha che d'essere guardata: è il "porsi-in-opera della verità", come la definisce il filosofo ne L'origine dell'opera d'arte. E' per questo che la amiamo: è rivelazione senza ricerca, risposta che anticipa ogni possibile domanda. Ed è per questo che sentiamo ancora il bisogno di riscoprirla e di preservarla, nonostante l'impoetico dominio della tecnica che caratterizza l'età moderna; è per questo che quando ci chiedono di indagarne il valore non troviamo le parole, abituati come siamo a sfornare definizioni a partire dai concetti di fine e utilizzo. Ci offre uno sgabello per salire a sbirciare nell'abisso della verità; dal profondo della voragine, inspiegabilmente, sento un aroma di coniglio.

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