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Vedere l’eternità: riflessione su "Conversazione su Tiresia" di Andrea Camilleri


Take a little trip back with Father Tiresias,

Listen to the old one speak of all he has lived through:

I have crossed between the poles, for me there’s no mystery.

Once a man, like the sea I raged,

once a woman, like the earth i gave.

But there is in fact more earth than sea.

Torna indietro nel tempo per un po’ insieme al Padre Tiresia,

Presta ascolto al vecchio mentre narra le vite che ha vissuto:

Ho attraversato il mondo tra un polo e l’altro, non esiste alcun mistero per me.

Sono stato uomo, infuriato come il mare.

Sono stato donna, donando me stesso come fa la terra.

Ed infatti, c’è molta più terra che mare.

The Cinema Show, canzone dei Genesis, introduce Andrea Camilleri, celebre scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano, sul palcoscenico del Teatro Greco di Siracusa, in veste di cantastorie accompagnato da un flautista, per la sua esibizione di un monologo- racconto di grande impatto. Un tale ingresso in un luogo di questo calibro si palesa immediatamente quale una sorta di “cortocircuito” mitico, storico e letterario, a partire dal modo in cui egli si presenta al pubblico: “Tiresia sono”, richiamando le parole abituali del personaggio che ha reso noto lo scrittore: Il Commissario Montalbano. Parallelismi con esso si intersecano sapientemente con altri numerosi elementi letterari lungo tutto il corso del racconto, tracciando parallelismi tra passato e presente. Camilleri racconta la storia dell’indovino tebano, trasformato in donna dagli dei per aver ucciso un serpente (che era in realtà una divinità trasformata) sul monte Citerone, ritrasformato in uomo grazie all’intervento della Pizia e successivamente accecato dalla dea Era a causa della sua piuttosto inopportuna intromissione in una discussione tra ella e il marito Zeus, il re degli dei dell’Olimpo. Per timore della reazione della moglie, questi non restituisce la vista al malcapitato Tiresia, ma gli fa un dono molto particolare, sentito spesso come una condanna: egli vivrà sette esistenze non continuative e verrà dotato della facoltà di antivedere il futuro. È a questo punto che inizia a percepirsi chiaramente l’idea di cortocircuito, dove la persona di Camilleri, in quanto cantastorie, racconta e si racconta, andando a convergere con il personaggio di Tiresia, inserendosi nella tradizione eterna dei cantori ciechi, che a partire da Omero (il primo in assoluto, tra l’altro, a parlare di Tiresia nell’Odissea, nella quale Ulisse lo incontra nel regno dei morti) si dirama lungo tutta la tradizione letteraria fino a giungere alla citazione di Jorge Luis Borges, che include non soltanto tutti questi narratori, ma anche se stesso, Andrea Camilleri, non vedente da diverso tempo:

“Noi tutti siamo teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo”.

Camilleri recita tale enunciazione dichiarandola vera per tutti, ma soprattutto per un cieco, per il quale la parola ha un peso molto maggiore che per gli altri. In una società come quella attuale, in cui tutto è apparenza ed immagine esteriore, dove bastano un rapido sguardo ed una concentrazione di pochi secondi per cogliere tutto, in quell’atmosfera sospesa tra l’effimero e l’eterno che un luogo come il Teatro greco di Siracusa può suscitare, si riafferma l’importanza di vedere più a fondo, di penetrare al di là della semplice immagine, di guardare le cose, le opere d’arte, il mondo che ci circonda con tutti i nostri sensi e del saper ridar vita a ciò che abbiamo percepito attraverso la poesia e la narrazione. Come metafora di tutto questo, Camilleri-Tiresia parla di un’usanza brutale che vedeva praticare in Sicilia durante la sua infanzia, un’abitudine che lo faceva piangere: alcuni giovani contadini erano soliti accecare i cardellini perché, a loro dire, da ciechi avrebbero cantato meglio. La cecità viene considerata dall’autore quasi come un’opportunità per aprire la propria mente all’intuizione, dunque molto più che una semplice punizione, come invece la ritiene Edipo, che non sa cogliere altro che questo aspetto meramente negativo. È proprio nell’Edipo Re di Sofocle che la persona di Tiresia diventa per la prima volta un vero e proprio personaggio, e a partire di qui, Camilleri svolge una lunga rassegna di autori che nelle loro svariate opere hanno trattato questa incredibile figura e l’hanno resa eterna. In maniera ironica e autoironica, Camilleri- Tiresia cita Dante, che espone il personaggio dell’indovino ad una lunga serie di calunnie e critiche, ponendolo all’Inferno tra i fraudolenti e costringendolo, attraverso la legge del contrappasso, a camminare con la testa girata al contrario, costringendolo a rivolgersi al passato, invece che al futuro. La narrazione attraversa tutte le epoche della letteratura mondiale fino ad approdare al Novecento, ai drammi surrealisti di André Breton, ai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, al cinema di Pier Paolo Pasolini e di Woody Allen, fino a soffermarsi sul volume La chiave a stella di Primo Levi, in un racconto del quale la metamorfosi da uomo a donna di Tiresia viene paragonata ad un’altra ben peggiore: quella da uomo a non uomo, attuata dalla brutalità dei campi di concentramento nazisti, responsabili dell’annientamento dell’umanità, un orrore che nemmeno un indovino del suo calibro avrebbe mai potuto prevedere: è semplicemente impossibile, per un uomo, prevedere ciò che nulla a che vedere con il significato che abitualmente diamo all’aggettivo “umano”.

L’impegno di Camilleri è ben evidente non soltanto in questo punto della narrazione, ma anche durante alcune interviste dove l’autore fa riferimenti piuttosto espliciti all’attualità, nella quale, afferma, si sta perdendo il senso del peso e dell’importanza che le parole hanno, anche le più brutali. Ciò che nel corso della storia, e a maggior ragione, nei campi di sterminio, ha salvato l’umanità dall’annientamento di se stessa, è stata solamente la poesia. A questo proposito, tra numerosissimi nomi letterari, viene dato particolare rilievo ad Angelo Poliziano e a John Milton, unici a consegnare la persona di Tiresia – e non solo il personaggio – all’eternità poetica, annoverandolo tra i grandi poeti ciechi della storia. Si coglie qui un omaggio alla funzione eternatrice della poesia che frequentemente torna nella tradizione letteraria di tutte le epoche: non basta avere sette vite e dunque vivere per un tempo che tende all’infinito per cogliere questa eternità, ed è proprio il messaggio che Camilleri, in alcune interviste inerenti a questa sua opera letteraria e teatrale, cerca di lasciar trapelare all’attenzione di noi lettori e spettatori. Arrivato a novantatré anni, il grande scrittore sente la necessità di cogliere almeno un’infinitesima parte dell’eternità del tempo, dell’arte, del teatro e della letteratura, e non esiste modo migliore per farlo che accomodarsi in una poltrona sul palcoscenico del Teatro greco di Siracusa, luogo costruito alle origini del mondo, nel momento in cui nascevano le parole e i principi dell’umanità, che hanno accompagnato le infinite generazioni di drammaturghi, attori e spettatori che si sono avvicendate in quel teatro, ognuno con la sua piccola storia da raccontare.

In foto:

René Magritte, Il falso specchio, 1928

Pablo Picasso, Il pasto del cieco, 1903


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