top of page

L'euro, paradiso degli orchi

L’uomo non si nutre di verità, l’uomo si nutre di risposte

Daniel Pennac, Signor Malaussène, 1995

Quello attorno alla moneta unica è divenuto un dibattito saliente nello scenario politico italiano dalla Grande Recessione del 2008 ed in modo particolare a seguito della crisi del debito pubblico del 2011. La discussione attorno all’Euro si spacca infatti tra i suoi strenui difensori e chi, più o meno apertamente, paventa una potenziale uscita dell’Italia dall’Eurozona come unica soluzione possibile per la salvezza del paese.

Questi ultimi vedono nell’abbandono della Lira uno dei principali motivi della mancata ripresa dell’economia italiana a seguito della crisi, se non addirittura individuandone la causa scatenante. In questa corrente, si inseriscono numerosi esponenti dell’attuale maggioranza. Benché un abbandono della moneta unica da parte dell’Italia non sia una possibilità contemplata nel “contratto di governo” sottoscritto da Lega e Movimento 5 Stelle, figure quali Claudio Borghi (attuale presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati), Alberto Bagnai (presidente della Commissione Finanze del Senato) o Paolo Savona (ministro per gli affari europei) non hanno mancato negli ultimi mesi di ribadire le proprie posizioni apertamente ostili all’Euro, posizioni già ben note dall’avvento della crisi. La posizione della maggioranza, dato il rilievo delle cariche ricoperte dai suoi esponenti euroscettici, risulta dunque potenzialmente ambigua.

Ma su cosa si fonda quest’ostilità nei confronti dell’Euro? Le argomentazioni sono molteplici. Riassumendo, alcuni, soprattutto anziani al bar, individuano nella moneta unica la causa di una paventata ed istantanea riduzione del potere d’acquisto degli italiani (per capirci, il caffè che passò dal costare 900 lire a 90 centesimi, pressoché raddoppiando di prezzo). Altri, Bagnai in primis, sostengono che, rinunciando alla possibilità di deprezzare autonomamente la propria moneta (nell’Eurozona, questa è una prerogativa esclusiva della Banca Centrale Europea), l’Italia abbia perso uno strumento attraverso il quale sostenere la competitività delle proprie esportazioni. Infine, l’assenza di un prestatore di ultima istanza (la BCE non ha sostituito la Banca d’Italia in questo ruolo a seguito della creazione dell’Eurozona) viene spesso additata (Borghi lo fa spessissimo) come una delle cause principali della volatilità del tasso di interesse sui titoli di stato italiani. Come vedremo, ciascuno di questi argomenti racchiude una radice di verità (come potrebbe essere credibile altrimenti?). Tuttavia, omettendo alcuni elementi cruciali (vuoi per sbadataggine, vuoi per malafede), finiscono per rendere una prospettiva estremamente falsata della realtà. A conti fatti, no, l’Euro non ci affama, né può essere ritenuto responsabile della mancata ripresa dell’economia italiana.

Partendo dall’esempio del rincaro dei prezzi, alcune considerazioni ulteriori sono doverose. Infatti, osservando l’andamento del prodotto in terno lordo (PIL) pro capite – la più semplice misura della ricchezza media degli individui in un paese – si delinea una prospettiva inaspettata: la tendenza è pressoché ininterrottamente – eccezion fatta per il 2008 ed il 2011 – crescente.

Inoltre, il grafico di sopra riporta un dato in termini di parità di potere d’acquisto (PPA), ovvero tenente conto dell’andamento – generalmente crescente – dei prezzi. L’introduzione dell’Euro nel 2002 non sembra aver dunque in alcun modo ridotto – anzi, esclusi gli anni di crisi, l’andamento sembra accelerare – il potere d’acquisto degli italiani.

Come mai allora il caffè al bar costa relativamente di più? Per una ragione pratica molto semplice. Un aumento di prezzo su un prodotto dal costo modesto (un caffè, una pizza margherita, un cono gelato…) risulta estremamente evidente: se il prezzo di un’automobile aumenta di 50 Euro da un giorno all’altro la compro lo stesso; se il caffè al banco passa da 1 a 2 Euro cambio bar. I piccoli esercenti sono consci di questa dinamica e quindi attendono solitamente degli eventi che permettano di mascherare il naturale rincaro dovuto all’inflazione, ad esempio introducendo un nuovo menu stagionale o simili. L’introduzione di una moneta totalmente nuova, rendendo dunque macchinosa la comparazione dei prezzi, e più difficile da notare un eventuale incremento, servì perfettamente a questo scopo. Allo stesso modo, la riduzione dei prezzi su un’ampia gamma di servizi e merci – solitamente più costosi, come la macchina dell’esempio di prima, rendendo il risparmio meno evidente – è passata inosservata. A conti fatti, tuttavia, il potere d’acquisto degli italiani è aumentato considerevolmente, benché si continui a notare di più i 20 centesimi di rincaro sul caffè che non le centinaia di euro risparmiate sulla rata di un mutuo.

Rivolgendosi invece alla questione della competitività cara a Bagnai, di nuovo, i dati sembrano contraddire la tesi secondo cui l’Italia, rinunciando ad una politica monetaria indipendente, abbia deteriorato il potenziale delle proprie esportazioni verso l’estero. Infatti, il grafico riportato di sotto rappresenta l’andamento del tasso di cambio effettivo reale con l’estero, che in Italiano corrente significa quanto più forte (o più debole) la moneta di un paese è rispetto a quelle dei suoi partner commerciali. Un valore di 100 indica che l’Euro ha un valore pari a quello della media ponderata delle monete dei paesi con cui l’Italia commercia. Un valore inferiore a 100 indica che l’Euro è relativamente più debole rispetto alle monete concorrenti, migliorando il potenziale delle esportazioni italiane, in questo modo relativamente meno costose. Un valore superiore a 100 va interpretato invece in senso opposto.

Dal grafico di sopra risulta dunque evidente come l’Euro non abbia di per sé peggiorato la posizione delle esportazioni italiane. Esclusi 2008 e 2001, il tasso di cambio si è mantenuto stabilmente sotto quota 100, in una posizione favorevole alla competitività di merci e servizi prodotti in Italia. Inoltre, l’incremento osservabile dal 2000, viene arrestato, e non prolungato, dall’introduzione della moneta unica nel 2002. Risulta dunque difficile sostenere che l’Euro in quanto tale sia stato responsabile di una riduzione della competitività dell’economia italiana. Le cause sono con più probabilità strutturali.

Rivolgendosi infine al più sofisticato tra gli argomenti, quello di Borghi, secondo cui gli investitori attribuirebbero ai titoli di stato italiani un rischio maggiore a causa dell’assenza di un prestatore di ultima istanza per il governo italiano, è opportuna una contestualizzazione. Infatti, il grafico di sotto riporta l’andamento del tasso d’interesse sul debito pubblico italiano. Se è da un lato innegabilmente vero che attorno al 2011 si sia verificato un incremento improvviso – e secondo alcuni (Borghi, De Grauwe…) – non totalmente giustificato del rischio attribuito dai mercati sui BTP, è altrettanto inequivocabile come la dimensione di tale aumento non sia minimamente comparabile alla situazione antecedente all’introduzione della moneta unica. L’assenza di un prestatore di ultima istanza – un attuale fattore di rischio, vero – non può spiegare perché nel 1995, quando la Banca d’Italia ricopriva esattamente quel ruolo, ai titoli di stato italiani fosse imposto un tasso di interesse pari al 12% (nel 2011, anno della crisi del debito era pari al 5%).

V’è infatti un elemento interpretato come un rischio ancora maggiore da parte dei creditori di uno stato sovrano: una politica monetaria arbitraria. In teoria, un paese con pieno controllo monetario può, per l’appunto, arbitrariamente stampare moneta, creando inflazione ed in questo modo riducendo il valore reale del debito fino a quel momento emesso. Immaginate di aver prestato allo stato italiano una bottiglia di vino buono. Ve la rende il giorno dopo apparentemente intatta, ma piena di coca cola. Da fuori la bottiglia sembra esattamente identica. Vi arrabbiate lo stesso. Questo è a grandi linee quello che succede al debito emesso se la moneta di riferimento viene deprezzata arbitrariamente. Il risultato è che o gli investitori smettono di acquistare il debito italiano, oppure continuano a farlo ma ad un prezzo (il tasso di interesse) più alto. Pertanto, sebbene sia vero che l’assenza di un prestatore di ultima istanza rappresenti un fattore di instabilità e di rischio, è altrettanto vero che l’incapacità di garantire una politica monetaria indipendente e non arbitraria costituisca un rischio ancor maggiore. Un rischio che l’introduzione dell’Euro, e di una banca centrale indipendente dai governi dei paesi europei, ha sostanzialmente eliminato.

Ancora una volta, questi tre esempi dimostrano come l’Euro abbia costituito, e sia tuttora, un capro espiatorio ideale per le forze politiche che preferiscono non evocare i reali, annosi problemi della nostra economia e società. Una sorta di Signor Malaussène. Una sorta di Paradiso degli Orchi.


bottom of page