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Viaggio nella fisica delle particelle: i primi rivelatori

Nei diversi articoli della nostra rubrica scientifica si è spesso parlato di fisica delle particelle e dei più moderni strumenti utilizzati per la ricerca, come acceleratori e rivelatori. Ma da dove ha origine tutta questa avanzatissima tecnologia di cui disponiamo oggi per esplorare l’infinitamente piccolo? In questo articolo cercheremo di riportarci alle origini degli esperimenti di fisica delle particelle, alle prime scoperte, in modo da poter meglio apprezzare la loro evoluzione.

Intanto, prima di tutto è bene capire cos’è un rivelatore. Con questo termine si definisce una vasta gamma di oggetti, di cui vi farò qui alcuni esempi, che permettono di vedere le particelle tramite diverse tecniche. Sono sostanzialmente gli occhi degli esperimenti di fisica.

Il primissimo tipo di rivelatore è la cosiddetta camera a nebbia, costituita da una camera in cui l’aria è satura di vapore. Questo strumento viene utilizzato per la prima volta nel 1839 da John Aitken, ma non per osservare particelle bensì per studiare la formazione delle nuvole. Durante tutto l’Ottocento la camera a nebbia continua ad essere utilizzata per studi di meteorologia, fino ad arrivare agli esperimenti di Charles Wilson. Questo scienziato, infatti, come i suoi predecessori meteorologi, inizia una serie di esperimenti nel 1895 finalizzati ancora una volta allo studio delle formazioni delle nubi e della conduttività dell’aria. A tal fine Wilson decide di sparare all’interno dello strumento dei raggi X e osserva che i fotoni che li costituiscono, attraversando la camera a nebbia, ionizzano le particelle al suo interno (ovvero strappano degli elettroni ai loro atomi, generando particelle elettricamente cariche) e causano la generazione di piccole goccioline d’acqua lungo il loro percorso. Così facendo Wilson riesce a produrre delle vere e proprie fotografie dei raggi X, ma anche di raggi gamma (sempre fotoni, ma molto più energetici) e particelle alpha (ovvero nuclei di Elio, formati da due protoni e due neutroni). Grazie a questo strumento si iniziano a vedere i primi raggi cosmici, particelle cariche provenienti dallo spazio che piovono continuamente sulle nostre teste (ma tranquilli, la radiazione che riceviamo durante una vita intera è inferiore a quella di una lastra), la cui scoperta verrà ufficializzata da Hess nel 1912. Sempre con le camere a nebbia nel 1933 Carl Andersen scopre un’altra particella fondamentale: il positrone, gemello dell’elettrone ma con carica elettrica opposta, che sancisce l'esistenza dell'antimateria.

Nel 1923 con Marietta Blau arriva un nuovo tipo di rivelatore, le emulsioni nucleari, un particolare tipo di emulsione fotografica costituita da cristalli di bromuro d’argento sospesi in una gelatina: in questo caso le particelle quindi ionizzano i cristalli di bromuro, che risultano come grani anneriti lungo il loro percorso. La necessità di questo nuovo strumento nasce dal fatto che con la camera a nebbia molte reazioni e particelle che i ricercatori desideravano studiare non erano visibili a causa della scarsa densità del gas nella camera. Anche questo strumento è utilizzato per studiare la composizione dei raggi cosmici e, in particolare, durante queste ricerche viene osservato per la prima volta il pione, una particella formata da due quark (i più conosciuti protone e neutrone sono composti da tre quark) con una vita piuttosto breve, tanto che Powell e i suoi collaboratori nel 1947 osservano nelle emulsioni anche i muoni (cugini pesanti degli elettroni) che vengono prodotti dal decadimento del pione

Nel 1949 le emulsioni permettono di osservare per la prima volta la produzione di tre di questi pioni dal decadimento di un altro mesone (=particella formata da due quark), che prende il nome di kaone e ha la particolarità di contenere un quark detto “strano”.

Negli anni '50 Donald Glaser decide poi di creare un nuovo strumento sulla scia delle camere a nebbia: al posto dell’aria satura di vapore, utilizza un liquido scaldato quasi alla temperatura di ebollizione; al passaggio di una particella, l’energia rilasciata porta a un’ebollizione locale del liquido lasciando una traccia di bollicine

Nasce così la camera a bolle, utilizzata nei primi esperimenti agli acceleratori, ovvero esperimenti in cui sono presenti due fasci accelerati di particelle che vengono fatti collidere o un solo fascio puntato contro un bersaglio fisso. Questi rivelatori, con una densità molto più alta dei precedenti, permettono la scoperta di numerosi barioni (=particelle formate da tre quark, cugini instabili di protoni e neutroni) e di fornire prove sperimentali per importanti teorie che in quegli anni stavano andando a comporre il Modello Standard, la teoria che al momento racchiude tutta la fisica delle particelle.

Tutti questi strumenti di cui abbiamo parlato, però forniscono solo una fotografia analogica delle particelle. Presto nasce la necessità di associare a questi rivelatori delle componenti elettroniche, in modo da poter sviluppare esperimenti sempre più grandi e complessi. A partire dagli anni '70 inizia quindi l’era dell’immagine elettronica, in cui i rivelatori, indipendentemente dal materiale che li costituisce, al passaggio di particelle vanno a produrre dei fenomeni che vengono tradotti in un segnale elettrico, trattato poi da un’apposita catena di elettronica e archiviato in modo da poterlo esaminare in seguito.

In questa fase si sono inventate e sviluppate (e si continua ancora oggi) nuove tecnologie, fino a formare una vastissima gamma di strumenti adatti a diverse tipologie di esperimento e particelle, tra cui i rivelatori a gas, gli scintillatori, i calorimetri e rivelatori a semiconduttore. Tutte tecnologie che sempre più spesso oggi trovano anche applicazione nella nostra vita quotidiana, andando dai componenti dei cellulari, alla produzione di energia, fino agli strumenti di diagnostica e cura nei nostri ospedali.


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