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Leopardi, 221anni di immensità

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.

In occasione del bicentenario dalla composizione del celebre idillio e della ricorrenza dell’anniversario della nascita del suo autore, Giacomo Leopardi (29 giugno 1798 – 14 giugno 1837), ho deciso di cogliere l’occasione per tracciare un’analisi del componimento ed una panoramica delle tematiche dell’estetica e della filosofia leopardiana che in esso confluiscono.

L’idillio, dal greco εἶδος (eìdos) «immagine», per definizione, nasce in Grecia con Teocrito di Siracusa nel III secolo a.C. In età ellenistica si tratta di un tipo di componimento per lo più breve, prevalentemente di argomento bucolico; viene successivamente sviluppato in epoca moderna quale composizione che celebra la vita agreste in quanto contemplativa e portatrice di quiete. Nel Settecento la definizione di poesia idillica viene estesa a tutta la lirica caratterizzata dalla descrizione minuziosa della natura: esemplare, in questo senso, è la poesia arcadica. A tali filoni possiamo dunque collegare L’Infinito leopardiano, nel quale la mera componente descrittiva viene però sapientemente sostituita da quella immaginativa, fulcro di tutto l’idillio. Leopardi, pertanto, utilizza una forma poetica già ben nota, modificandone e innovandone però la sostanza più profonda.

La composizione dell’Infinito risale quasi certamente all’estate del 1819. Nel 1825 venne pubblicato sul “Nuovo Ricoglitore”, per poi confluire nell’edizione bolognese del 1826 e successivamente nei Canti del 1831 e del 1835.

Ciò che a prima vista possiamo notare nel componimento è la pregnanza semantica: ne consegue un immenso potere evocativo. Concettualmente, tutto ruota intorno ai verbi “mirando” (v. 4) e “odo” (v. 9). La percezione sensibile, visiva ed uditiva, è la chiave di volta del componimento, che fornisce il punto di partenza per l’immaginazione e per la creazione dell’idea di infinito. L’importanza, fondamentale in Leopardi, della tipologia di lessico che si utilizza in poesia ha le sue radici in una riflessione del poeta, da lui stesso annotata nello Zibaldone, la raccolta di pensieri che ne accompagna tutta la vita letteraria: fondamentale in una lingua, per la fioritura della letteratura e della bellezza artistica, è la presenza di parole, distinte dai termini scientifici che definiscono la cosa in quanto tale, che non solo presentino l’idea dell’oggetto significato, ma che ne siano immagini accessorie.

L’importanza dello stile poetico permette di inventare l’infinito nelle forme materiali e chiuse del verso, del ritmo e del suono, ed è anche per questo motivo che la tipologia di lessico utilizzato diventa fondamentale. È anche rilevante sottolineare quanto, nella concezione leopardiana, la poesia debba necessariamente essere frutto dell’entusiasmo e dell’intelletto sommati insieme: nessuno dei due può prescindere dall’altro, poiché è impossibile, per l’uomo e per il poeta, esprimere l’infinito e dare forma alle sensazioni che esso suscita nel momento stesso in cui le sta provando, ma esprimerà tutto ciò in un momento successivo, utilizzando appunto lo stile, le proprie idee e i sentimenti che prova per trovare infine l’espressione lirica, la più alta che esista.

Nel componimento, il poeta si trova sul monte Tabor, un colle situato nei pressi del “natio borgo selvaggio”, Recanati. Qui lascia che un’esperienza personale di contemplazione e meditazione diventi universale, cosa che avviene proprio grazie al suddetto tipo di lessico, composto in gran parte da parole che richiamano sensazioni vaghe ed indefinite (“ermo”; “interminati spazi”; “sovrumani silenzi”; “mi fingo”; “infinito silenzio”; “eterno”; “immensità”; “naufragar”). Chi legge viene coinvolto a tal punto da immaginare ciò che potrebbe esservi oltre quella linea dell’orizzonte che si scorge in lontananza, al di là di “questa siepe” che occlude la visuale. Leopardi consente ai lettori di abbandonarsi all’immaginazione, trasportandoli in una dimensione spazio-temporale indeterminata, che viene solamente suggerita attraverso quei vocaboli, sopra citati, che trasmettono un senso di smarrimento in epoche e luoghi lontani ed indeterminati, un passato remoto o un tempo indefinito e impalpabile che si lega indissolubilmente alla realtà attuale, dell’hic et nunc in cui il poeta contempla la natura (le morte stagioni, e la presente/ e viva).

Lo stile del componimento è quello che il poeta ha messo a punto nella cosiddetta poetica dell’indefinito, nella quale egli teorizza un sostrato composto da un lessico di uso comune, impreziosito da alcune di quelle parole che Leopardi stesso definisce quali “vaghe, eleganti, indefinite”, come detto poco sopra. Questo codice poetico tende dunque a creare un’atmosfera indeterminata, che spesso, nell’opera leopardiana, si lega strettamente ad alcuni tòpoi che hanno in comune la caratteristica di distaccarsi dalla precisione descrittiva e di avvicinarsi all’evocazione di immagini e idee di indeterminatezza, le quali hanno il potere di riempire l’anima e provocare un piacere illimitato; essi sono la rimembranza, il sentimento del nulla e la percezione fantastica dell’infinito spaziale e temporale.

Leopardi sostiene che una sensazione di diletto pressoché senza limiti sia il fine massimo della poesia. Tale convinzione si inserisce nell’ambito di una riflessione più ampia, di tipo estetico, che attraversa tutta l’opera e la filosofia dell’autore e che egli stesso definisce “teoria del piacere”. La ricerca di quest’ultimo è lo scopo principale della vita umana. Gli uomini aspirano ad una sensazione di appagamento e benessere costante e permanente nel tempo, fondamentalmente impossibile da ottenere; si ricerca pertanto questo piacere nell’immaginazione di cose lontane, indistinte, suscitate dalla presenza di oggetti o elementi naturali che in un certo qual modo ostacolano la percezione di ciò che è situato al di là di essi. Nell’ambito della ricerca del diletto è assai rilevante anche la dimensione del ricordo, grazie alla presenza di oggetti o elementi che suscitano la memoria di momenti lontani nel tempo: come annotato nello Zibaldone, la creazione poetica necessita dell’illusione, che prende a sua volta vita nella dimensione sfumata ed indefinita delle cose lontane nel tempo e nello spazio, ricordate oppure immaginate. Anche ciò che appartiene alla dimensione della memoria può dare origine alla poesia, poiché la lontananza temporale gli fa assumere un contorno indefinito e fantastico, che suscita quindi immaginazione.

In questo senso, Leopardi ritiene che una simile creazione poetica vada necessariamente recuperata dalla classicità. Egli sostiene infatti che agli albori della civiltà le persone fossero molto più a stretto contatto con la natura rispetto all’uomo della modernità; da tale rapporto nascevano l’ispirazione e la creazione poetica vera e propria, derivata dalla percezione sensibile e dal conseguente peregrinare dell’immaginazione che ne scaturisce. Secondo il poeta è dunque necessario recuperare il legame tra umanità e natura per dare alla luce una poesia moderna, che sappia coinvolgere gli uomini dal punto di vista emotivo ed intellettuale: una teorizzazione che sembra essere perfettamente applicata nell’idillio.

Dal punto di vista più strettamente testuale, l’esperienza immaginativa dell’io poetico fluisce liberamente nel corso del componimento, il quale si affranca dalla costrizione di qualsiasi tipo di artificio metrico e retorico proprio grazie all’utilizzo dell’endecasillabo sciolto, che contribuisce a restituire un’idea di sospensione e di indeterminatezza, amplificata dal fatto che i versi sembrano confluire l’uno nell’altro grazie al frequente utilizzo dell’enjambement, figura retorica secondo la quale il terminare del verso spezza la continuità sintattica. (interminati/ spazi; sovrumani/ silenzi; quello/ infinito; questa/ immensità).

Una sorta di contrapposizione tra ciò che è presente e ciò che si può immaginare oltre i confini fisici viene perfettamente evidenziata dall’assai frequente alternanza degli aggettivi determinativi “questo/quello”, che lasciano trasparire quanto la stessa immaginazione prenda comunque avvio da elementi percepibili attraverso i sensi. Emblematica, nel discorso, è “questa siepe” del verso 2, che nel verso 5 diventa “quella”: prende così avvio, a partire dal dato sensibile, il processo che porta alla totale astrazione. L’elemento fisico che crea una sorta di ostacolo dà al poeta l’impulso a spingere il proprio immaginare al di là delle categorie umanamente comprensibili, verso uno spazio illimitato ed un tempo eterno; potrebbe dirsi una dimensione sublime, davanti alla quale l’anima poetica fatica a non sconvolgersi, “ove per poco / il cor non si spaura”. Davanti all’ineffabilità di tale immensità spaziale e temporale, il poeta non può far altro che abbandonarvisi e lasciare che essa lo pervada nel profondo dell’animo fino a toccare i sensi, per tradurre successivamente le vaghe sensazioni in creazione poetica, dando vita ad uno dei più celebri e meravigliosi testi lirici della letteratura di ogni tempo, che si chiude emblematicamente in “questa immensità”, in “questo mare”, ovvero in una realtà ormai non più concreta, ma che è stata totalmente interiorizzata.


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