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Giù le mani da Rolling Stone

Se si pensa ad una rivista musicale, la prima che viene in mente è senza dubbio "Rolling Stone".

Fondato a San Francisco nel 1967 da Jann Wenner e Ralph J. Gleason, il mensile si è presto affermato in tutto il mondo come il punto di riferimento principale per l'informazione e la critica musicale.

Tuttavia da alcuni anni il giornale è minato, oltre che dall'universale crisi della carta stampata, da un continuo biasimo e da attacchi incessanti, mossi principalmente dagli stessi lettori e fan. Basta infatti aprire la sezione commenti di un qualsivoglia articolo condiviso sulla pagina Facebook ufficiale per trovarsi di fronte alla versione digitale di una pubblica esecuzione.

Ma in cosa consiste e da cosa dipende tutto questo astio?

La prima, onnipresente critica che appare nei commenti è l'accusa alla redazione di "Rolling Stone" di aver tradito il rock, per dedicarsi invece a tutti i generi musicali. Questa accusa non tiene conto del fatto che nel 1967, al momento della nascita della rivista, il rock era la musica più in voga e che, negli anni, questo primato è passato ad altri generi.

Nessun tradimento, quindi: "Rolling Stone" si è sempre occupata della musica popolare, qualsiasi essa fosse. Se è vero che probabilmente è stata proprio la rivoluzione musicale degli anni '60 ad aver portato alla sua creazione, è anche vero che le cose cambiano e soprattutto che il giornalismo segue i fatti, non li precede: non è "Rolling Stone" ad essere cambiata, lo è il mondo che essa descrive.

La seconda critica, riscontrabile nuovamente nella quasi totalità dei commenti agli articoli, è mossa contro il fatto che il periodico si occupa non solo di musica, ma anche di altri ambiti artistici e culturali e persino di politica.

Nuovamente questi rimproveri (il più frequente dei quali recita: "Tornate a parlare di musica!") nascono dalla scarsa conoscenza degli intenti del giornale, che dal 1980 si professa "entertainment magazine" e che già dai primi anni '70 aveva introdotto la componente politica. Questa fu inizialmente curata da Hunter S. Thompson, che proprio in quell'occasione creò il cosiddetto "gonzo journalism", che rivoluzionò lo stile di scrittura degli articoli.

La facilità con cui queste informazioni possono essere reperite (basta cercare "Rolling Stone" su Google per accorgersi che già il titolo del sito ufficiale riporta "Rolling Stone – Music, Film, TV and Political News Coverage") fa pensare che i lettori non siano veramente interessati a sapere come stanno le cose, ma che invece preferiscano difendere a spada tratta le proprie convinzioni, in particolare quell'idea romantica e del tutto infondata che la rivista in questione possa essere (o sia mai stata) un baluardo di difesa della musica rock.

Tutto questo è in linea con la cultura dell'hate tipica del nostro periodo storico e viene forse da pensare che, in un mondo tanto insensibile all'elogio e all'approfondimento quanto sempre pronto alla rissa, spesso certi articoli abbiano proprio lo scopo di infastidire il pubblico, ottenendo così più visualizzazioni.

"Rolling Stone" non è una rivista perfetta: come molte altre cose, è il riflesso della realtà che la circonda e delle persone che ne usufruiscono. Nei decenni spesso la comunità musicale e artistica ha espresso dubbi riguardo alla sua integrità, ma il suo valore culturale e l'importanza di moltissime sue pubblicazioni – da interviste preziosissime a reportage unici nel loro genere – è innegabile.

Nella crisi della stampa che stiamo attraversando (e che ha già portato al fallimento della versione cartacea di "Rolling Stone Italia"), è problematico che i lettori stessi siano i primi nemici di un giornale e che la loro critica sia spregiudicata e fine a se stessa, invece che costruttiva e motivante.

Occorre chiedersi: davvero vogliamo la morte di "Rolling Stone"? Ma soprattutto, più in profondità: davvero è questo il tipo di società che vogliamo essere?

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