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Tra vita e sogno, riflessioni su "La vita è un sogno" di Calderon de la Barca


Colui che portò al massimo splendore la produzione teatrale del Secolo d’Oro spagnolo, ovvero il Seicento, Pedro Calderòn de la Barca, scrisse per i teatri di corte, per il teatro ecclesiastico e quello pubblico. Nel teatro calderoniano e in generale in quello spagnolo, si ha spesso una commistione di generi: l’elemento tragico e comico non vengono quasi mai separati totalmente, ma sapientemente mescolati all’interno della stessa opera. È il caso di “La vita è un sogno” la più celebre tragedia dell’autore; essa viene definita tragedia per gli argomenti e i personaggi elevati che tratta, ma è appunto caratterizzata da finale lieto e da elementi comici, come ad esempio il personaggio di Clarìn, servo astuto e impiccione, figura ereditata dal teatro latino. L’opera intreccia tematiche amorose, politiche ed esistenziali che assumono validità per ogni epoca, a tal punto che, pur essendo considerato dramma barocco per eccellenza, trascende la sua stessa ambientazione storica ed assume una valenza totale, per chiunque in qualsiasi tempo.

La tragedia narra le vicende accadute nella reggia polacca dopo il presagio avveratosi ai danni della regina Clorilene, che muore di parto dopo il ricorrente sogno, durante la gravidanza, secondo il quale un mostruoso neonato le squarciava le viscere, uccidendola. Il re Basilio, astrologo, interrogando le stelle, scorge un futuro raccapricciante: il figlio, Segismundo, diventerà un prepotente tiranno, calpestando il re padre prostatosi davanti ai suoi piedi e governando in maniera eccessiva e incurante di ogni limite. Basilio decide pertanto di chiuderlo per sempre in una torre fra le montagne, in modo da aggirare il vaticinio ed impedirne la realizzazione. Dopo anni decide tuttavia di riportare il figlio a palazzo, per capire se effettivamente questo destino apparentemente scritto possa essere sfidato: osserverà il comportamento del giovane: se avrà un atteggiamento ribelle e aggressivo, lo farà rinchiudere nuovamente nella torre, spiegandogli che ciò che ha vissuto, o meglio, ha creduto di vivere, è semplicemente un sogno. Così avviene e il principe viene imprigionato. Nel corso dell’opera, Segismundo imparerà però che non sempre si riesce a distinguere tra realtà e sogno, due mondi confusi, che spesso si sovrappongono e si assomigliano terribilmente, e per questo motivo bisogna sempre agire bene e comportarsi rettamente, anche nei sogni, perché se ne avrà sicuramente beneficio al risveglio. È a questo punto che l’opera di Calderòn inizia ad assumere valenza esistenziale. Come risveglio infatti, non si intende solamente il tornare alla realtà dopo aver dormito, ma anche un risveglio che avviene dopo la morte, in una dimensione ultraterrena nella quale davvero si gode del bene che si è fatto in passato. Tema centrale dell’opera è infatti la fugacità della gloria terrena, un argomento da non intendersi soltanto dal punto di vista religioso. Il periodo Barocco, infatti, in Spagna come in altri Paesi d’Europa, è fondamentalmente un periodo di crisi politica ed economica, un fattore che genera ansia e sensazioni di precarietà. Dopo l’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento, nella quale l’uomo credeva di essere il fine supremo della creazione divina e al centro dell’universo, ora percepisce il disinganno e la delusione della crisi, che a sua volta genera il mettersi in discussione. Il senso critico che nasce nelle persone dà vita alle creazioni migliori, motivo per il quale il Seicento viene considerato l’età d’oro, il periodo di massimo splendore della produzione artistica e letteraria spagnola. Queste ultime sono caratterizzate dall’eccesso estetico, che porta un godimento immediato, ma effimero. Più volte i personaggi, Segismundo in particolare, si mettono in discussione e fanno confusione tra i piani del reale e del sogno: “Che è la vita? Ansia febbrile. Che è la vita? Un’illusione, solo un’ombra, una finzione…”

Se la vita è sogno, se il confine tra la realtà e la dimensione onirica è così labile e poco individuabile, emerge dunque la necessità di ottenere la fama eterna dovuta all’aver ben operato in vita, più che la gloria terrena. Nella cultura barocca è ben presente, infatti, l’influenza della filosofia stoica, in particolare di Seneca, che dipinge la morte come fine ultimo della vita, come risveglio in una dimensione che trascende l’esistenza terrena. Non si tratta propriamente della gloria eterna dei cieli, che appartiene invece ad una concezione cristiana. La fama eterna, che è ciò che conta davvero, non si ottiene applicando la filosofia oraziana ed epicurea del carpe diem, assai diffusa all’epoca, ma operando bene in virtù dei benefici che si otterranno dopo “il risveglio della morte”. Nonostante questi riferimenti alla classicità, sono presenti anche elementi della religione cristiana, quali l’importanza del libero arbitrio. Il cielo, che ne La vita è un sogno viene generalmente chiamato fato, è interpretabile come volontà divina, influisce solo per metà sul comportamento umano: l’altra metà è affidata al libero arbitrio. Grazie ad esso, l’essere umano, pur guidato dai disegni divini verso il proprio destino, non deve necessariamente subirlo, ma affrontarlo. Chi vuole vincere il destino non deve evitarlo anticipatamente, ma difendersi da esso nel momento in cui gli si palesa, comportandosi sempre rettamente secondo la propria libertà individuale, la sua capacità di discernere che cosa sia giusto fare in determinate situazioni. Ne “La vita è un sogno”, infatti, il destino presagito dal re Basilio si avvera soltanto fino ad un certo punto: quando il re si prostra ai piedi del figlio, quest’ultimo gli dà la mano invece di usurparne il potere, promettendo di essere un sovrano saggio e giusto, che ha capacità di perdonare gli oltraggi subiti e di poter in questo modo vincere il destino che sembrava inevitabile. Pensiero classico e cristiano si fondono: se quando ci troviamo in un sogno, non sappiamo di esserci e lo crediamo vero, l’operare bene non è mai sprecato, perché avrà sempre una remunerazione futura; essa avverrà “al risveglio”, che diventa metafora della presa di consapevolezza del fatto che non bisogna accontentarsi di ciò che dà gloria materiale e fugace, un godimento effimero che poi svanisce come un sogno quando ci si risveglia. Solamente così si può raggiungere un benessere non transitorio, ma sicuro e permanente. La vittoria suprema è quella sopra le proprie passioni e i propri desideri materiali, esemplificata dalla decisione di Segismundo di non sposare la donna che desiderava, per salvare l’onore di lei e sposare la principessa per il bene del regno, sacrificando la propria ambizione materiale per un bene più grande.

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