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YES Summer Camp: Socialismo e Canarie (versione est europea)

“Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.”


Espressione divenuta ormai proverbiale, non avevo mai compreso a fondo il celeberrimo incipit di Anna Karenina guardando alle famiglie intese come gruppi di individui uniti da legami di sangue; sono dovuta andare in Bulgaria e ho dovuto rivolgere lo sguardo a un altro tipo di famiglie, sebbene travagliate e litigiose almeno quanto casa Oblonskij: quelle politiche.


Dal 30 luglio al 4 agosto 2019, nel resort di Albena, sulle rive del Mar Nero, si è tenuto il campo estivo dei Giovani Socialisti Europei (YES). Più di seicento ragazzi provenienti da tutta Europa si sono ritrovati per quattro giorni di dibattiti, workshop e, perché no, chiacchiere sotto l’ombrellone in una location forse abituata a un turismo più ristretto e meno internazionale.


Nonostante la sabbia, il sole e la birra bulgara a buon mercato, bastava un’occhiata a quei volti di giovani dalle belle speranze per capirlo: erano infelici. Italiani, tedeschi, francesi, spagnoli (pure loro! E pensare che hanno Pedro Sanchez) e tutti gli altri: ciascuno infelice a modo proprio. Accomunati dall’insoddisfazione verso il proprio “mother party”, espressione che indica i partiti di riferimento delle organizzazioni giovanili: non a caso in inglese, che qua è imprescindibile idioma di riferimento, sebbene declinato in tanti accenti diversi quanti sono i membri dell’Unione. Si concretizza dunque la metafora della famiglia tolstoiana, anche se più che madri amorevoli i partiti “adulti” vengono percepiti rispettivamente come padri padroni per quanto riguarda il poco spazio lasciato alle giovanili all’interno del dibattito politico, inetti sveviani nel delineare una linea d’azione identitaria e nel percorrerla fino in fondo.


Siamo tutti alla disperata ricerca di qualità che valgano, di un riconoscimento attivo che non proceda unicamente per antitesi all’assetto vigente. Svolazziamo “muti, attoniti, affamati/sull’agonia di un lume”, per citare Emilio Praga, che con un secolo e mezzo di anticipo aveva perfettamente inquadrato i millennials, spaccati tra la prolificità nello scrivere bio sui social e la sindrome da foglio bianco che li assale quando si tratta di rispondere alle tante domande, incalzanti e spaventosamente concrete, che ci rivolge il presente. Svolazziamo, tra un nume agonizzante e l’altro. Ci sporgiamo timidamente al di sopra dei confini nazionali per sbirciare a che cosa stanno combinando i leader della sinistra degli altri paesi; l’erba del vicino è sempre più rossa, si sa, ma ormai abbiamo vagamente intuito che la crisi dei partiti tradizionali costituisce un processo più ampio e articolato, che si erge al di sopra dei confini nazionali e persino europei. La visione organica finisce qui, però; come abbiamo detto all’inizio, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, e quindi lasciamo che gli italiani se la vedano con Salvini, i tedeschi con la Grosse Koalition e gli inglesi con la Brexit: unicuique suum.


Eppure quando parte “Bella ciao” ci abbracciamo e la cantiamo tutti in coro e non c’è nessuno che tenga il pugno abbassato quando aleggiano le prime note dell’Internazionale. Che cosa è rimasto, dunque, a legare la famiglia dei lavoratori? Su quale orizzonte comune si staglia il sol dell’avvenire? Basta leggere il “motto” di quest’anno, stampato su opuscoli, borse e borracce in uno stampatello vagamente psichedelico che lo fa passare per il titolo di una nuova serie tv Netflix: “We fight for every social right”, combattiamo per ogni diritto sociale. E la prima impressione non può essere che quella di una estrema riduzione delle velleità rivoluzionarie: assumendo come identitarie le battaglie sulla libertà individuale e sull’emancipazione delle minoranze, i giovani socialisti europei possono tirare un sospiro di sollievo e ritirarsi senza troppo disonore dalla terra di nessuno costellata dai cadaveri di chi li ha preceduti, quella su cui si dibatteva di temi secolari ed estremamente frastagliati qualilavoro, welfare state e povertà, nell’era degli slogan preconfezionati dei sovranisti e della consegna in un giorno di Amazon Prime.


La voglia di fare e il fervore giovanile non mancano: tuttavia, questa libido rivoluzionaria non si riversa più negli argini storici della sinistra, sbatte contro il sostanziale fallimento di ogni tentativo di interpretare efficacemente il presente con gli strumenti del passato. Si perde in rigagnoli e in una generale confusione ideologica, in ultima istanza inoffensiva. L’unica polemica di una certa rilevanza sollevata durante le giornate bulgare è stata quella connessa al cosiddetto “socialismo conservatore” manifestato dalla leader del Partito Socialista Bulgaro, Kornelia Ninova, che in una lettera pubblicasi eradetta contraria al Pride, tenutosi a Sofia nel 2018. Informata dell’ostilità della comunità queer nei suoi confronti, avrebbe minacciato tagli ai fondi forniti dal suo partito allo YES e impedito ai membri della giovanile bulgara di partecipare al corteo. Gli attivisti LGBT hanno agito prontamente, nella migliore tradizione dei movimenti socialisti ed egualitari, prima presentandosi con slogan di protesta sotto al palco durante la cerimonia di apertura, poi abbandonando in massa quella di chiusura. Alle posizioni dei socialisti bulgari si aggiungeva l’esito del Pride organizzato ad Albena durante il campo: ci sarebbero stati tentativi di censura da parte dell’organizzazione e le autorità bulgare avrebbero garantito una “extra security” solo per un periodo limitato di tempo e lungo il percorso prestabilito della parata. Percorso quasi interamente svoltosi nel mezzo della fitta vegetazione di Albena, su un sentiero poco frequentato dalle ridenti famiglie tradizionali in villeggiatura, e quindi privo della visibilità e della carica dirompente che sono l’obiettivo primario di iniziative di questo genere: quale protesta può dire di cogliere veramente nel segno, se svuotata di ogni connotato antisociale e perturbante? E così gli attivisti hanno prodotto il seguente documento, nel quale deprecano le modalità le quali è stato gestito l’evento:

Quasi mi commuovo quando scorgo un impavido “Compagni!” in apertura, ma dopo aver terminato la lettura non sono del tutto convinta. Chiara e ammirevole la condanna a ogni tipo di discriminazione e la netta dichiarazione di indipendenza rispetto alle posizioni dei mother party, ma il richiamo ad accettazione e uguaglianza diventa stridulo nelle righe conclusive. Si parla del proposito di redigere una “LGBTQI+ Charter”, un documento nel quale riaffermare i valori fondanti dell’organizzazione e delineare nuove regole che impediscano l’insorgere di situazioni di questo tipo nel futuro. Ad esempio, non permetterelo svolgimento di altre attività “non-queer”parallele al Pride. Ma non abbiamo aperto la lettera con un appello al fatto che “ciascuno deve essere rispettato per ciò che è”?Essere ciò che si è ha come condizione preliminare l’assoluta e incondizionata libertà di scelta. Paradossalmente, una rivendicazione così genuina e appassionata di libertà e autonomia avrebbe avuto una chiusa di maggior effetto invitando a organizzare cento, mille attività diverse in concomitanza al Pride: la vera vittoria sarebbe stato vederle tutte deserte.


Strano binomio, l’atteggiamento totalizzante figlio del marxismo della prima ora e la battaglia progressista per i diritti civili. Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del cortocircuito delle forze democratiche. Abbiamo troppe anime, troppi fili da tenere assieme: come l’eroina tolstoiana che si reca dal fratello fedifrago nel tentativo di rappacificarlo con la moglie, ma che finisce per ingaggiare una battaglia contro se stessa destinata a concludersi tragicamente sotto a un carrozzone, alla stazione di Mosca.


“E perché non spegnere la candela, quando non c’è più nulla da guardare, quando fa schifo guardare tutto questo?” si chiede Anna, negli ultimi istanti della propria vita, e ce lo chiediamo anche noi, che forse siamo giunti alla fine della socialdemocrazia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Risolto il problema delle tensioni familiari e del mancato procedimento dialettico: arroccarsi in un’isola felice, in un’oasi di sintesi nella quale finalmente vedere realizzati solidarismo e coesione. Non cambiano solo i contenuti, ma anche gli attributi iconografici: via l’impoetica prosaicità del realismo socialista, il quadro che ho davanti agli occhi quando penso a noi nuovi, dolci rivoluzionari è quello in cima a questa pagina: Lusso, calma e voluttà di Henri Matisse, un’idillica scena di colazione in riva al mare. I corpi umani perdono quasi connotati sessuali, galleggiando tra la brillantezza dei colori: ecco il gender fluid elevato ad arte. Ma siamo ancora ben lontani dalla rivoluzione dei fauves (in francese “belve feroci”), con la quale i colori diventano “cartucce di dinamite”. Stiamo ben comodi in una riposante, sognante e gay friendly ambientazione provenzale, che non si discosta troppo dalle spiagge di Albena. Attenzione però: questo quadro viene realizzato con la tecnica del pointillisme,al fine di enfatizzare la luminosità delle diverse tonalità. Purtroppo la politica non segue le stesse regole della pittura; ahinoi, il divisionismo a sinistra raramente porta a risultati elettorali particolarmente brillanti e un programma di governo “a macchie” lascia intollerabili spazi bianchi, nei quali populismo ed estrema destra hanno gioco facile ad insinuarsi.



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